La Nato “glocal” ha partorito una Nuova Alleanza, spostando di mille e duecento chilometri più a est la cortina di ferro dell’Occidente contro Mosca: ieri alla porta di Brandeburgo, oggi alle porte di San Pietroburgo, per contenere un autocrate e fronteggiare la Cina. Debutta vendendo i curdi a Erdogan, gli unici a mettere i fatidici “scarponi sul terreno” per fermare l’Isis in Siria: per il popolo curdo nessun diritto all’autodeterminazione. Ed ecco offrire di nuovo il vile mercato dei nostri princìpi etici e politici agli occhi dei 3,2 miliardi di persone raccolte nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) affatto entusiasti della piega presa dagli eventi. E noi? Consegniamo le chiavi della “Fortezza Europa” all’inquilino pro-tempore della Casa Bianca: pensate se, dopo Biden, torna Trump
Questo editoriale apre il numero 29 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dall’1 luglio 2022
L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ

Nove mesi giusti giusti ci sono voluti dalla fuga indecorosa della Nato dall’Afghanistan. Vent’anni di morte e distruzione, con cui s’è consumato un harakiri politico che sarà studiato sui libri di storia militare. Nove mesi per completare la «natificazione» dell’Europa intera, intruppando Finlandia e Svezia. «Natificazione»: l’ha definita proprio così il comandante in capo Joe Biden nella capitale spagnola — in opposizione a «finlandizzazione» (cioè neutralità). Un rafforzamento «a lungo termine» dell’impegno militare Usa in Europa tradotto in 260mila effettivi in più, rispetto ai 40mila disponibili sinora per il comando supremo a Bruxelles. E, per essere più chiari, «gli Stati Uniti creeranno un nuovo quartier generale dell’esercito permanente in Polonia».

La Nuova Alleanza militare debutta vendendo i curdi a Erdogan, gli unici — esclusi i contractor prezzolati — a mettere i fatidici “scarponi sul terreno” per fermare l’Isis in Siria. Per il popolo curdo niente diritto all’autodeterminazione, giusto? Ed ecco offrire di nuovo il vile mercato dei nostri principi etici e politici agli occhi dei 3,2 miliardi di persone raccolte nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che non sembrano affatto entusiasti della piega che va prendendo il mondo con lo spettacolo ipocrita dei nostri valori liberali, sventolati a giorni alterni. Di più: la Nato si sovrappone oramai come un guanto all’intero continente. E non è un buon affare per l’Unione Europea, nata dalla tragedia del nazifascismo per evitare nuove guerre su un territorio devastato e orrendamente insanguinato. E così è stato per più di settant’anni di pace, eliminando le controversie territoriali e costruendo benessere e democrazia.
Che la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa — liberi, autonomi e saggiamente sovrani — fosse fumo negli occhi oltremanica e oltreoceano, è stato sempre manifesto. L’ostilità nei confronti dell’euro — cresciuto, sempre più pericolosamente per il dollaro, come divisa internazionale — è conclamata sin dal suo sorgere. E, nel disegno imperiale — tratteggiato, intanto e per gli anni a venire, dalla Corte suprema americana anche sui temi ambientali (seppellendo il Clean Power Plan di Obama sulle energie fossili) —, non è contemplata un’Europa politica che pure ha guidato il mondo intero sulla frontiera del futuro: la lotta alla crisi climatica, accantonata dalla guerra ucraina, anzi da essa disastrosamente alimentata. Come si fa a non capire che, accelerando sulla fuoriuscita dai combustibili fossili, si tagliano alla radice le unghie dell’Orso russo? Le stesse unghie del Bisonte americano — teniamolo a mente — rimpinzato di petrodollari a tutte le latitudini, causa primaria delle guerre condotte con il coinvolgimento e le coperture della Nato in versione “glocal” dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia.

È qui, in questo punto preciso, che l’Europa è posta davanti al proprio destino. Con quella proiezione — naturale, verrebbe da dire — verso l’Africa e il vicino Oriente, per ripercorrere a ritroso le vie insanguinate dalla caccia all’oro nero, predato con ogni mezzo e in tutte le direzioni da un secolo in qua. L’arma da usare, stavolta, è la rivoluzione tecnologica per lo sviluppo di energie pulite, dando vita «a nuova industria, a materiali, sistemi e processi intelligenti, a consenso e coesione sociale», per un «ripensamento globale di economia, lavoro e giustizia sociale», come ha scritto su queste pagine, dopo il Consiglio d’Europa di fine giugno, il professor Massimo Scalia.
Non dovrebbe essere questa la postura giusta dell’Europa, in uno slancio generativo che è l’opposto del bellicismo che si autoalimenta? Questo slancio l’Europa lo ha avuto nella battaglia contro la pandemia. E, per quanto ci riguarda, abbiamo sempre pensato che Next Generation Eu non avrebbe visto la luce senza tre donne — Merkel, Lagarde e Von der Leyen — a capo del nostro continente nella devastante tempesta del coronavirus. E duole, duole profondamente, assistere alla cooptazione delle leadership femminili di Svezia, Finlandia e non solo nel nuovo risiko imbastito a Washington e recapitato a Bruxelles via Madrid con un bigliettino che impone di moltiplicare per otto gli effettivi a stelle e strisce sul suolo europeo.
Dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ci saremmo aspettati, ad esempio, un impulso deciso a costruire la Difesa Comune Europea in spirito di amicizia nei confronti degli Stati Uniti d’America ma senza servilismo. Ed invece abbiamo consegnato le chiavi della “Fortezza Europa” all’inquilino pro-tempore della Casa Bianca: pensate un po’ se, dopo Biden, torna un Trump. Madri più belliciste dei padri, dunque, risucchiate dalla forza centripeta del dio della guerra? Se finisce così, non è, francamente, una bella notizia, né una buona prospettiva per figli e nipoti. Se non li avremo fatti già arrostire col riscaldamento globale che corre. Eccome se corre… Basta sporgersi in questi giorni sul Delta del Po per capirlo una volta per tutte. © RIPRODUZIONE RISERVATA