Qui in alto, il Porto di Gioia Tauro; sotto il titolo, il Porto di Genova

Il solo piano portuale degno di questo nome risale a novant’anni fa. Il nostro import-export passa prevalentemente via mare ma sembra che nessuno ne abbia consapevolezza. Manca una politica nazionale: investimenti miseri, nessuna strategia, un business lasciato ai privati, una frammentazione autolesionista. Eppure l’import-export via mare – che in un decennio è aumentato di due terzi – vale circa 400 miliardi di euro all’anno


◆ Il corsivetto di di VITTORIO EMILIANI

L’Italia è un Paese sul mare, ma non lo sa. Ha circa 120 scali marittimi, fra i quali grandi porti come Genova, e però è come se non lo sapesse. Lo Stato centrale stanzia cifre molto modeste a differenza dei maggiori partners europei e in tal modo il patrimonio di gru, di magazzini, di silos portuali è decisamente limitato e quindi in mano a monopolisti privati a partire dalla Silos Genova. Né va granché meglio in altri scali con qualche rara eccezione. 

La frammentazione, il campanilismo sono demenziali in questo settore strategico. Dai porti transita il 90 per cento delle importazioni (sono soprattutto olii minerali) e il 65 per cento delle esportazioni. Questo flusso in uscita risulta monopolzzato dalle Conferences sulle singole linee regolari di navigazione. Conferences nelle quali gli agenti marittimi prevalgono nettamente sugli spedizionieri. Non  attrezzati modernamente. 

Tutto ciò finisce per scaricarsi in modo negativo sulle merci e sulla loro oggettiva concorrenzialità a livello internazionale. Del resto il solo Piano dei porti che così si possa chiamare risale alla metà circa degli anni ’30 quando però il Duce stava iniziando in Africa Orientale una politica di potenza che penalizzava espansione e consumi. 

L’economia portuale è stata costretta a prendere la via dei porti del Nord Europa per il rifornimento di olii minerali e per le esportazioni. A Livorno la Compagnia Portuale ha provato col console Vasco Jacoponi a proporsi anche come impresa di sbarco e imbarco con parziali successi, boicottata però dai privati. Così anche a Ravenna e in altri scali marittimi. Senza che si delineasse e consolidasse una politica di livello nazionale in un Paese che pure risulta formato da una penisola e da due grandi isole più altre minori. Un Paese marittimo fino a prova contraria e però senza una vera politica né tantomeno una strategia marittimo-portuale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Direttore onorario - Ha cominciato a 21 anni a Comunità, poi all'Espresso da Milano, redattore e quindi inviato del Giorno con Italo Pietra dal 1961 al 1972. Dal 1974 inviato del Messaggero che ha poi diretto per sette anni (1980-87), deputato progressista nel '94, presidente della Fondazione Rossini e membro del CdA concerti di Santa Cecilia. Consigliere della RAI dal 1998 al 2002. Autore di una trentina di libri fra cui "Roma capitale Malamata", il Mulino.