Il Parlamento europeo, nei giorni scorsi, ha votato a favore della decisione presa a Bruxelles di non immatricolare più auto con il motore endotermico dal 2035. Una decisione che ha provocato reazioni gridate da parte della destra italiana. Grida che descrivono uno scenario drammatico che — è la tesi dei “contrari” alla svolta verde — provocherebbe nuovi disoccupati e crisi economica nel Paese. Eppure l’Italia è già da tempo marginale nella produzione di autovetture. I tempi d’oro del boom della Fiat sono alle spalle
Il commento di MAURIZIO MENICUCCI
DA COME SI straccia le vesti per la decisione presa a Bruxelles di abolire il motore a scoppio nel 2035, l’Italia sembrerebbe il primo tra i paesi europei che producono veicoli. Ed è proprio su questo equivoco che conta, oggi, chi punta a far ribollire di facili sdegni nazionalisti la nostra pancia sempre più gonfia di aria fritta, per raccattare consensi politici non meno gassosi. Perché dai, lo sanno anche i bambini, l’automobile, tutta, motore e stile, è come la pizza: una specialità del Made in Italy. E gli altri ce l’hanno sempre copiata, ovviamente male.
Questo modo di pensarci sempre al centro del mondo, anche se per vederlo ci serve, ormai, un cannocchiale, mi ricorda di quando, un terzo di secolo fa, fui messo a occuparmi dell’imminente lancio della Duna restyling, forse il più infelice modello nella storia della Fiat a partire dal nome, foriero di sabbia nel carburatore. Alla gentile segretaria di direzione che, per telefono da corso Marconi (sede del regno dell’Avvocato), mi chiedeva: «Le piace?», risposi che mi sembrava un po’ tozza. E lei, dopo aver ripreso fiato per dieci secondi — perché quando mai si aspettava una simile impudenza da un giornalista, e poi torinese —, mi richiamò all’ordine: «Ma che dice, dottore! È stata studiata a lungo dai nostri centri stile e poi si ricordi che siamo noi a dettare le linee al mercato internazionale. Mi raccomando, ne scriva bene, neh!». Allora, i volumi davano ancora ragione alla “signorina”: eravamo tra i primi sei produttori mondiali, anche se il declino era già nell’aria e linee come quelle della Duna le dettavamo, più che altro, ai Paesi in via di sviluppo, dove a forza di vendere quei trattori da festa finimmo anche per fabbricarli.
Altri tempi, comunque. Oggi i buoi, anzi, i cavalli vapore, sono scappati altrove: siamo solo al settimo posto in Europa, dopo Germania, Spagna, Francia, Repubblica Ceca, Regno Unito e Slovacchia, e oltretutto il Vecchio Continente vale meno di un quarto della produzione mondiale. Quindi, invece di annuire come ebeti alla vulgata neomussoliniana che ci vuole vittime della perfida Europa, dovremmo chiederci per quale ragione siamo solo noi a disperarci tanto. E concludere che, se lo facciamo, è perché, in realtà diamo per scontato d’aver perso il treno del rinnovamento tecnologico. Mentre tutti gli altri si attrezzavano per passare all’elettrico, noi, credendoci, come al solito, i più furbi, siamo rimasti attaccati alla pompa dei combustibili fossili: avendo un Eni che — preso in ostaggio Enrico Mattei — può imporre le sue logiche al Paese, e ai politici che se le lasciano imporre, perché sono ignoranti e corrotti.
E adesso pagheremo cara questa sventatezza: non possiamo certo sperare che Bruxelles rimandi la scadenza per farci l’ennesimo piacere. Tutt’al più, saremo noi stessi a raccontarci che la nostra premier andrà a battere i pugni sull’eurotavolo e a impetrare quell’italica eccezione che, beninteso, il nostro status reclama come un diritto e non come una concessione. E fingeremo di crederci, nonostante gli schiaffoni che stiamo prendendo e continueremo a prendere su tutta la linea della nostra attuale irrilevanza economica, politica e progettuale.
Mi ha fatto impressione sentire i leader della Cgil criticare l’eurostop ai motori non elettrici con le stesse parole di quelli dell’Ugl, che politicamente stanno a destra. Ma del resto non vorrei essere nelle loro tute: o dicono la verità, cioè che l’Italia industriale ha torto marcio, o perdono la faccia e le ultime tessere. Sarebbe interessante sentire in un dibattito televisivo come la pensano i sindacalisti della tedesca IG Metall, che sono abituati a condividere con i manager le strategie delle loro aziende. Ma credo proprio che non capiterà, perché siamo entrati nella fase in cui, se la verità fa male, è meglio abolirla. © RIPRODUZIONE RISERVATA