
Era tornato pochi giorni prima da Göttingen, l’università centro dell’Illuminismo e dalla quale Alexander von Humboldt aveva ispirato la scienza moderna, fornito i primi più importanti esempi di interdisciplinarità e teorizzato la “terza missione” per l’Università, quelle dei servizi per il territorio e i concittadini. Avendo dimenticato la chiave di casa, si era sobbarcato una notte al freddo nella sua auto. Poco dopo l’alba, intirizzito e con gli occhi ancora carichi di sonno, aveva visto sfilare, entrando dall’ingresso principale della “Sapienza”, piccoli gruppi che si andavano a collocare attorno alla fontana della Minerva
Il racconto di HERR K.
Ed ero già vecchio quando vicino a Roma, al Little Bighorn Capelli corti generale ci parlò all’università Dei fratelli tute blu che seppellirono le asce Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace. E a un dio “fatti il culo” non credere mai.» |
(Fabrizio De André – Coda di lupo, 1978) |
SI ERA TROVATO in quinta – o quarta? – fila senza avere in mano, come pochi altri, gli “stalin” che l’eufemismo movimentardo invocava come puri strumenti di difesa. Aveva visto Luciano Lama, già sceso dal palco, diventare grigio nel viso e, attimi dopo, salire precipitosamente sull’auto con la scorta mentre le prime file si scagliavano a distruggere il palco. Tutto si era svolto come nell’assemblea a Lettere, la sera precedente, aveva prefigurato uno dei capi dei “Volsci”, l’Autonomia romana, usando trasparenti previsioni per dare di fatto indicazioni ai suoi.

Lui era tornato pochi giorni prima da Göttingen, l’università centro dell’Illuminismo e dalla quale Alexander von Humboldt aveva ispirato la scienza moderna, fornito i primi più importanti esempi di interdisciplinarità e teorizzato la “terza missione” per l’Università, quella dei servizi per il territorio e i concittadini. Avendo dimenticato la chiave di casa, si era sobbarcato una notte al freddo nella sua auto. Poco dopo l’alba, intirizzito e con gli occhi ancora carichi di sonno, aveva visto sfilare, entrando dall’ingresso principale della “Sapienza”, piccoli gruppi che si andavano a collocare attorno alla fontana della Minerva. Parecchio dopo, dalla scalinata di Lettere era cominciato a defluire lentamente un corteo, con un pupazzo appeso a un tubo, cantilenante gli slogan tipici dei “creativi”, ma era stato abbastanza chiaro, man mano che le presenze si addensavano, che le cose sarebbero andate verso lo scontro fisico. Quelli della Flm (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), capito l’andazzo, avevano riavvolto le bandiere e, in abbastanza rapida successione, se ne erano andati, lasciando a diretto contatto gli “autonomi” con i servizi d’ordine della Cgil e del Pci. In mezzo alla piazza si mimava sempre più lo scontro, il suo caro amico F. si era trovato a fronteggiare un esponente sindacale, che pure aveva frequentato il loro “gruppetto”. Entrambi con le mani alzate un contro l’altro e, riconosciutisi, si erano quasi messi a piangere. Intanto la piccola marea umana continuava ad avanzare, il servizio d’ordine del Pci aveva cominciato a liquefarsi, lo stesso il roccioso “Ughetto” con i suoi occhiali dalle lenti spesse come culi di bicchiere.
Tutto era andato come da copione. Eppure, quando alle due di notte, prima del freddo rifugio nella sua auto, M., capo del sindacato scuola, ma evidentemente per conto della Camera del Lavoro romana, lo aveva chiamato al telefono per tastare il terreno, là nella sede del “gruppetto”, gli aveva detto con grande nettezza che nessuno era disposto a credere che Lama veniva all’università, occupata ormai da due settimane, come grande capo dei lavoratori intenzionato a interloquire con i “ribelli”. Infatti, erano bastati otto tumultuosi giorni alla Sapienza per convincere il “Palindromo”, così era stato subito ribattezzato, a scomunicare i rivoltosi come “diciannovisti”, proprio sull’“Unità” del 9 febbraio. Proponendo nei loro confronti una “azione giacobina”. Una “riparazione” in nome di Rosa Luxemburg, cui il “Palindromo” era filosoficamente riferibile, per aver lei ceduto a suo tempo a quella testa di legno di Karl Liebknecht?

Dopo quella giornata campale, quasi ogni giorno, ricordava, c’era stata una sortita fuori dell’Università, spesso in meno di un centinaio. Sempre col suo caro amico C. – uno fico, alto, avvolto nel suo poncho – che si era azzardato a violare la liturgia assembleare, che prevedeva una buona dose di ipocrisia per declinare le modalità di ogni manifestazione. E con teutonica determinazione aveva romanamente concluso il suo intervento: “Al corteo, niente baiaffe”. Fischi e urla, e si erano dovuti fronteggiare con alcuni dei “Volsci”, ascoltati sacerdoti della liturgia.
Ma quel 5 marzo si erano persi nell’allungarsi e sfilacciarsi dell’esigua manifestazione. Insieme a un altro del “gruppetto”, più giovane, si erano trovati in via Lanza con davanti pochi che stavano risalendo di corsa, seguiti subito dopo da raffiche di facile interpretazione. Si erano rifugiati cuore in gola in un portone, e mentre altri tre o quattro si inoltravano nei piani superiori per trovare accoglienza in qualcuno degli appartamenti, loro due si erano nascosti nel sottoscala. Mai scelta era stata più felice. I poliziotti, a mitragliette impugnate, erano saliti per le scale e avevano cavato fuori dagli appartamenti i rifugiati caricandoli di botte. Roba di vago sapore cileno o argentino. La mano dura di Cossiga si faceva sentire, Roma in “quarantena” e poi l’uccisione di Giorgiana Masi, lì a Ponte Garibaldi. Il 12 maggio.
Di assemblea in assemblea si era andata approfondendo ad opera del “gruppetto” e di altri compagni di strada la spaccatura con l’Autonomia romana, troppo proclive a coprire anche i comitati in odore di terrorismo. Il boss di uno di questi, fino a non molti anni prima presente, peraltro, in una formazione di estrema destra, era addirittura assurto alle cronache della “Pravda” con un trafiletto che suonava come un “mettete giù le mani dal compagno N.”. Del resto, di “colonnelli” delle Br, veri o millantanti credito, aveva cominciato a circolarne qualcuno. Come il figlio, notoriamente, del generale della Nato, eternamente in posa col suo basco nero e il suo fastidioso toscaneggiare.

La manifestazione del 12 marzo a Roma, contro l’uccisione a Bologna di Francesco Lorusso, aveva visto scene drammatiche – a piazza Venezia, una fila di pistoleri in piedi, una fila sotto in ginocchio, a metà piazza, tutti con le P38 contro il battaglione di polizia che presidiava l’ingresso al Corso – mentre nell’enorme corteo che correva ormai alla spicciolata si sentivano con chiarezza voci che scandivano numeri a terna. Prove di esercizio per passare in clandestinità. A Ponte Margherita, ricordava ancora con un po’ di vergogna, si era a un certo punto riparato, inadeguatamente, dietro una delle colonnette dei parapetti perché dall’altra parte la polizia sparava a volontà, mentre la manifestazione si stava ormai disperdendo.
Si era costituito il “gruppo degli 11”, quattro quelli del “gruppetto”, uno dei quali era l’unico operaio che si era fatto attrarre dallo “stato maggiore” del movimento. La primavera aveva favorito qualche pausa nella turbolenza, e così si poteva chiacchierare alla base della scalinata di Lettere con un giovanissimo Nanni Moretti, forse presago che l’anno successivo avrebbe tirato fuori “Ecce Bombo”, attori anche alcuni che bazzicavano il movimento. E, fin da allora, quelle che sarebbero divenute le abituali immagini di una certa Roma Nord. Che sfiga non essere nati a Manhattan! Si poteva anche vedere, allora bella – incredibile! –, una che neanche ci pensava che sarebbe diventata un importante personaggio della Rai, non perspicua per capacità di comprensione politica degli eventi. Come allora.

Il documento proposto dagli “11” era diventato momento di discussione in preparazione della manifestazione di Bologna, a settembre. “Zangherì, Zangherà”, aveva scandito gioiosamente il lungo corteo dei centomila per le strade assolate della “Dotta”, dove finalmente si era consumata, anche fisicamente, la separazione dall’Autonomia. Nel palazzo dello Sport si erano riuniti i “buoni”, e lui si era sentito fremere quando, proprio lì, Franca Rame aveva letto, seppure per nobili motivi, la lettera di un brigatista. Nell’altro palazzo – era entrato per snasare – si era dovuto fermare all’ingresso perché volavano le pesanti sedie universitarie con mensola lanciate da alcuni dei “Collettivi padani”. Quasi un fremito di orgoglio campanilistico quando i “Volsci”, romani, erano massicciamente intervenuti facendo cessare quella vuota demenza.
Nel “dopo Bologna” erano arrivate decine e decine di telefonate alla sede del “gruppetto” e ad altri degli “11”. Nelle settimane e nei mesi successivi. Comitati, gruppi e anche singole persone ponevano la stessa domanda: “E adesso che facciamo?”. Era possibile mettere in piedi, a partire dalle università, un movimento antagonista, ma capace di proposte, di creatività culturale a Roma, come a Milano o a Padova, soprattutto a Bologna. E decisamente avverso al terrorismo e alle sue azioni. L’occasione era stata incredibilmente persa per timore che il “gruppetto” potesse “mettere il cappello” su quel che poteva nascere. E l’amarezza per questo esito lo aveva accompagnato per parecchio tempo.

Ma il ’77, ancora indigesto a gran parte di chi se lo ricorda, non era stato solo l’anno del tizio fotografato in una celebre posa “combattente”, molto dannunziana (che fine avrà fatto? – si chiedeva), e neanche la spinta propulsiva del terrorismo. Si erano incrociati dei nuovi strani soggetti, i “non garantiti” – che il movimento, in realtà una testa eminentemente politica, aveva avuto la capacità di convocare e che aveva fatto sfilare in tante migliaia –, con gli ultimi sprazzi di una rivoluzione pensata non come una serata di gala, ma alla quale si accede però solo in virtù di un’egemonia operaia vera, né ideologica né surrogata dalla “critica delle armi”. Un fenomeno non compreso, massimamente dai “nouveaux philosòphes”, che si erano precipitati dalla Francia, dove già era in marcia lo “stato atomico” con la sua repressione, per spiegare che l’Italia era ormai la Polonia di Jaruzelski. Brodo vacuo, ma una manna per tutti i voluti estremismi, che, anche tramite gli “11”, a Roma, la piazza più “calda”, erano però in larga misura riusciti a controllare. E aggiungeva nel suo monologo interiore: “Sciovinisti anche quando fanno i pensatori, questi francesi!”
Il 20 marzo del ’77 si era celebrata a Pian dei Gangani, a Montalto di Castro, la prima “festa della vita”. Era stata la nascita del movimento antinucleare italiano. Anche questo aveva turbato molti, sogghignava tra sé, e ci erano voluti anni e un grande impegno per arrivare alla vittoria del “Sì” nel referendum del 1987. Ma questa era un’altra storia, con soggetti ben diversi, almeno per come gliela avevano raccontata. E restava quella fuga di Lama come incontrovertibile simbolo dell’inizio del declino di un grande e storico organismo di massa: il sindacato italiano. © RIPRODUZIONE RISERVATA