Anzio Campaign, 1944. A soldier looks at a huge portrait of Mussolini that had been taken from an Anzio Political Hall and damaged by passing troops (Naval History and Heritage Command National Museum of the U.S. Navy)

«Avevo 14 anni, curiosa di tutto. La presenza di tutta quella gente ‘forestiera’ mi intrigava. O comunque era un diversivo nella vita sempre uguale che facevamo lassù, lontani da tutti. A casa mi avevano detto che erano ebrei. lo però non sapevo bene che cosa significasse essere ebrei in quegli anni. Per me erano sfollati come tanti. Anche se intuivo che erano sfollati un po’ particolari, più in pericolo degli altri, perché mio padre mi aveva raccomandato di non parlarne con nessuno e di essere prudente: “Con tutti questi tedeschi in giro, meno si sa che ci sono da noi questi amici, meglio è”, ripeteva…». Nel suo ultimo libro, “La scelta giusta”, Emilio Drudi racconta la Resistenza senza armi contro il nazifascismo, entra in punta di piedi nella vita di Riccardo Nardi (“Granatiere alla difesa di Roma”), Mariano Mancini (“Il prigioniero di Dora”), Quirino Masella (“Partigiano senz’armi”) e Gentilina Carlesimo (“La vivandiera degli ebrei nascosti”). Tutte persone che scelsero l’antifascismo a cui Drudi dà voce in prima persona, offrendo sempre ai lettori «una spiegazione a tutto tondo del contesto in cui le loro vite diventano testimonianze essenziali per ricostruire un quadro degli eventi che altrimenti risulterebbe in qualche modo monco» (prefazione di Olga Massari dell’Istituto storico Parri). Un’operazione di storia orale in cui «storie private si intrecciano con la cosiddetta Storia con la “s” maiuscola». Tanto più preziosa oggi, a ottant’anni dal tornante decisivo della nostra lotta collettiva per la libertà riconquistata a carissimo prezzo 


◆ Il racconto di EMILIO DRUDI, estratto da “La scelta giusta”, Calamaro Edizioni

 ► Su allo Strammarello, un pianoro in contrada Melogrosso, sulle falde del monte Semprevisa, il piccolo casale dei Carlesimo c’è ancora. Una costruzione rustica in pietra viva a vista, robusta come si usava una volta, con il tetto a due spioventi di tegole antiche, coperte da un velo di muschio. Ora non ci abita più nessuno. Poco lontano, semisommersi dai rovi, sono ancora visibili la base e qualche mozzicone di muro della capanna di pietre, fango e strame dove Luigi Carlesimo ha nascosto il piccolo gruppo di ebrei che gli aveva chiesto aiuto. La zona è quasi isolata. Le case che hanno invaso la conca di Suso si fermano più in basso. Per arrivarci bisogna inerpicarsi su una stradina ripida, col fondo di ghiaia e sassi.

Tutt’intorno crescono rigogliosi cespugli di strame, l’erba rustica da cui deriva il nome della zona. Un nome persino dimenticato: pochissimi lo usano ancora a Sezze e se si chiede in giro quasi nessuno sa dare indicazioni. Ne sa ancora qualcosa solo qualche anziano che ha vissuto da quelle parti in passato. Appena più in alto la montagna è intatta: le coltivazioni e gli oliveti finiscono e le balze salgono ripide verso la cima, con rade macchie di alberi o cespugli e punteggiate dal bianco dei roccioni di calcare, che bucano lo strato sottile di terriccio.

Dal ricordo di Gentilina Carlesimo, quattordicenne all’epoca dei fatti

“Sono arrivati prima dell’alba”

«[…] Mi ricordo bene di quella famiglia di ebrei che è stata a casa nostra durante la guerra, quando Sezze era piena di tedeschi. Mio padre li ha trovati una mattina vicino al nostro casolare, allo Strammarello, in contrada Melogrosso. Era presto. Mio padre usciva sempre presto da casa per i suoi lavori in campagna. È andato nell’oliveto e li ha visti lì, che si riparavano dal freddo e dall’umido dell’alba sotto agli alberi. Erano tanti, una decina più o meno. Tutta la famiglia di Cesare Di Veroli, compresa la cognata di Cesare e suo figlio. Erano arrivati di notte, all’improvviso. Ma penso che non siano arrivati da noi per caso. Mio padre doveva sapere qualcosa o comunque loro erano sicuri che lui li avrebbe aiutati. Venivano da Sezze. Probabilmente si sono mossi col buio per non farsi vedere, dato che – come ho saputo in seguito – erano scampati per pochissimo alla caccia che le SS e la polizia tedesca davano agli ebrei. Credo che li abbia nascosti e ospitati inizialmente un altro amico e che poi, dopo qualche giorno, non so dire quanti, siano venuti da noi. Sono arrivati che era ancora scuro e allora non hanno voluto ‘bussare. Hanno preferito aspettare che facesse giorno, insomma.

Alle prime luci mio padre è uscito e li ha visti lì, riuniti in gruppo come se lo aspettassero. Lui conosceva Cesare Di Veroli, che aveva un negozio di stoffe e tessuti a Sezze, proprio in centro, sulla piazza dei Leoni. Era un suo cliente. A fare tutte le spese importanti era mio padre. Anche per roba come le stoffe: magari, in questi casi, si faceva accompagnare da mia madre, ma era sempre lui poi a decidere e a pagare. All’epoca si usava cosi. E poi lui era molto patriarca: nelle cose di casa voleva sempre l’ultima parola. Da cliente credo che sia a poco a poco entrato in confidenza e poi addirittura in amicizia con Cesare. Ecco perché dico che Cesare, in quei momenti difficili, doveva essere quasi sicuro che mio padre lo avrebbe aiutato. Appena lo ha visto nell’oliveto, infatti, gli si è fatto incontro e gli ha chiesto se poteva ospitarlo per un po, sistemandoli da qualche parte. Magari, anzi, avevano preso qualche accordo in precedenza. Certo è che mio padre non si è tirato indietro. Non so bene come si siano svolte le cose prima del loro arrivo da noi, perché né mio padre né mia madre ci hanno mai raccontato granché: allora per motivi di sicurezza e perché non era cosa per noi ragazzi; in seguito perché i miei erano restii a parlarne: non davano peso a quello che avevano fatto.

80-G-58429: Battle of Anzio, January-June 1944. Italians of Anzio, Italy. Italian boy-baby poses for his picture outside his grass home. Official U.S. Navy photograph, now in the collections of the National Archives. (2016/06/28)

In casa noi eravamo in sette. Mio padre Luigi, che allora aveva 60 anni esatti, mia madre Giulia, di poco più giovane, io e tre dei miei fratelli: Elia, la maggiore, e i due maschi, Sante e Salvatore. Inoltre, una zia. Le altre tre mie sorelle, Angela Maria, Antonietta e Fausta, si erano già sposate e avevano messo su casa col marito, poco lontano da noi, sempre nella conca di Suso. Anche senza di loro, però, il nostro casale era troppo piccolo per ospitare tutto il gruppo. Allora mio padre ha sistemato una capanna che avevamo poco lontano, ai margini dell’oliveto. Una di quelle capanne tipiche delle nostre parti, con le pareti di pietre a secco, il tetto di rami intrecciati e strame, il pavimento in terra battuta. Senza finestre e con una porta rustica a chiudere l’ingresso. Molti contadini in capanne così ci vivevano tutto l’anno: era la loro casa. In contrada Melogrosso e alla Chiesa Nuova ce ne erano tantissime. Per tutto il tempo che sono stati da noi il gruppo intero ha abitato lì e in un’altra capanna simile, più piccola, che sempre mio padre ha preparato per loro nei giorni successivi, dopo aver ripulito il pianoro da erbacce e rovi. Era già autunno inoltrato. Forse la fine di ottobre o i primi di novembre. Ne sono sicura perché cominciava già a fare freddo.

Per fortuna, scappando da Sezze, i Di Veroli si erano portati un po’ di indumenti pesanti e qualche coperta. L’essenziale, insomma, per affrontare l’inverno, che su allo Strammarello, a mezza costa sulla Semprevisa si fa sentire parecchio. Specie se si è costretti a vivere in una capanna, con dei pagliericci per dormire e dove si possono avere solo un po’ di fuoco o un braciere per scaldarsi. Per il mangiare, invece, ci pensava mia madre. Anche con l’aiuto di una sorella, mia zia, che abitava con la sua famiglia poco distante da noi, nella contrada della Chiesa Nuova. Roba in casa ce n’era: farina bianca per la pasta o il pane e gialla per la polenta, fagioli, vino, olio. Il raccolto era stato buono e i miei, in previsione delle ristrettezze legate alla guerra, avevano fatto una buona scorta. Cesare Di Veroli e sua cognata avevano un po’ di denaro e contribuivano alle spese. Davano i soldi a mio padre o magari, quando capitava, compravano qualcosa loro stessi dai contadini lì intorno: legumi secchi, farina, qualche pollo o, quando si trovava, della carne. Tutta roba che era poi mia madre a cuocere, perché nella capanna non c’erano fornelli, pentole o altro. I contadini che vivevano in case come quella cucinavano direttamente sul fuoco, all’aperto quando era bel tempo o dentro quando pioveva o faceva troppo freddo. Ma loro erano di città, non erano abituati. E poi mancavano tegami, stoviglie. Tutto il necessario, insomma.

Ecco perché mia madre preparava per tutti. Poi ero io, in genere, a portare la roba cucinata fino alla capanna. Ero contenta di farlo. Avevo 14 anni, curiosa di tutto. La presenza di tutta quella gente ‘forestiera’ mi intrigava. O comunque era un diversivo nella vita sempre uguale che facevamo lassù, lontani da tutti. A casa mi avevano detto che erano ebrei. Io però non sapevo bene che cosa significasse essere ebrei in quegli anni. Per me erano sfollati come tanti. Come le tante famiglie che avevano lasciato Sezze o erano salite dalla pianura fino a Suso a causa della guerra. Anche se intuivo che erano sfollati un po’ particolari, più in pericolo degli altri, perché mio padre mi aveva raccomandato di non parlarne con nessuno e di essere prudente: “Con tutti questi tedeschi in giro, meno si sa che ci sono da noi questi amici, meglio è” – ripeteva […]».

Ringraziamo l’autore e la casa editrice “Calamaro Edizioni” 

Già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de “Il Messaggero”, ha approfondito i problemi dell’immigrazione, occupandosi in particolare della tragedia dei profughi provenienti dal Sud del mondo ed è tra i fondatori del Comitato Nuovi Desaparecidos. Sui rifugiati e le politiche migratorie ha pubblicato “Fuga per la Vita”, Edizioni Simple (2018). Insieme a Marco Omizzolo ha scritto “Ciò che mi spezza il cuore. Eritrea: dalla grande speranza alla grande delusione”, un saggio inserito nella collettanea Migranti e Territori (Ediesse, 2015); e “Etnografia della nuova diaspora eritrea: origini, sviluppo e lotta contro la dittatura”, nella collettanea Migranti e Diritti (Edizioni Simple, gennaio 2017). È autore anche di tre libri legati alla persecuzione antisemita: due con la Giuntina (“Un Cammino lungo un anno, Gli ebrei salvati dal primo italiano Giusto tra le Nazioni” nel 2012; “Non ha dato prova di serio ravvedimento. Gli ebrei perseguitati nella provincia del duce”, nel 2014); il terzo con Emia Edizioni “Il Marchio di diversi” nel 2019.