Qui in alto e sotto il titolo, Pier Luigi Bartoletti, medico di base a Roma Tor Pignattara e segretario vicario dei dei Medici di medicina generale

Pier Luigi Bartoletti, 62 anni, romano, medico appassionato del suo lavoro, uno che il giuramento di Ippocrate se lo porta incollato addosso, se un suo paziente ha un’emergenza lui c’è, sempre. Da anni rappresenta la Federazione romana dei Medici di medicina generale, ovvero i medici di base, anche con incarico a livello nazionale come segretario vicario: «La categoria è stata messa a dura prova dalla pandemia. Sui medici di famiglia si è scaricato il peso enorme della gestione del Covid, siamo stati in trincea per oltre due anni, dovendo affrontare una situazione caotica. Eravamo pochi, solo nel Lazio mancano circa 650 medici. Oltre ai pensionamenti, ci sono le uscite di gente che ha appena 62-63 anni. Di quelli che lasciano ne è stato rimpiazzato neppure un terzo. Dopo il Covid si parla tanto di cure di prossimità, ma è solo uno slogan se non si passa ad una seria programmazione. Il Servizio sanitario nazionale è a pezzi. Anche per questo tanti vogliono appendere il camice al chiodo»


L’intervista di ANNA MARIA SERSALE

SPIRITO COMBATTIVO, MEDICO di frontiera in una delle periferie più popolose della capitale, Tor Pignattara. Pier Luigi Bartoletti, 62 anni, romano, medico appassionato del suo lavoro, uno che il giuramento di Ippocrate se lo porta incollato addosso, se un suo paziente ha un’emergenza lui c’è, sempre. Da anni rappresenta la Federazione romana dei Medici di medicina generale, ovvero i medici di base, anche con incarico a livello nazionale come segretario vicario. 

— Dottor Bartoletti, che ne pensa della commissione parlamentare che indagherà sulla gestione della pandemia? 

«Mi sembra ingeneroso… però se si scoprono illeciti quelli vanno perseguiti. Comunque, il Servizio sanitario nazionale ha retto nonostante le difficoltà, grazie al sacrificio di medici e infermieri che hanno pagato anche con la vita. All’inizio di quel virus si sapeva ben poco. Non c’erano vaccini e non c’erano cure specifiche, ma siamo riusciti a fronteggiare l’emergenza. La verità è che il nostro sistema sanitario era tarato per le patologie croniche, non per l’emergenza pandemica. Ma tutti, a partire dai medici ospedalieri ai medici di famiglia, hanno fatto il massimo, anche se ai medici di famiglia non sono stati dati né strumenti diagnostici, né dispositivi di protezione personale, né mascherine, nulla». 

— Che cosa è accaduto in questi tre anni di Covid? 

«A parte la primissima fase iniziale, in cui siamo stati meno coinvolti, anche noi medici territoriali abbiamo dovuto fronteggiare l’emergenza, accomunati dalla stessa sorte dei medici di Pronto Soccorso. Eravamo il primo riferimento della gente chiusa in casa, che aveva paura e ci bersagliava di telefonate. Siamo stati lasciati soli, non ci hanno dato strumenti, dovevamo prenderci carico dei malati in isolamento domiciliare, all’inizio le linee guida dicevano tachipirina e vigile attesa. Bisognava fare tamponi ai sintomatici, vigilare sull’evoluzione della malattia. Molti di noi sono morti, sapevano di rischiare ma sono andati avanti. Eravamo stremati, senza più turni, senza riposi, sempre in allerta, siamo stati sottoposti a un eccesso di contatti. Ora molti di noi vogliono lasciare il servizio, pensano al prepensionamento». 

— A Roma e nel Lazio quali problemi? 

«Anche nella nostra regione sono scoppiati focolai, a Nerola, Pontigliano, Celleno, nelle Rsa e in alcune aree della Capitale dove si riscontrava un numero più elevato di casi. Capivo che c’era bisogno di un coordinamento, di una logica di rete, ci inventammo l’Uscar, Unità speciali per continuità di cure e assistenza, che per un certo tempo ho coordinato personalmente, poi passate sotto la direzione dell’ospedale Spallanzani». 

— Quali compiti hanno avuto queste unità speciali? 

«Seguire tutte le emergenze extra-ospedaliere. Ne hanno fatto parte in tanti, dai medici di famiglia ai colleghi giovani, agli specializzandi, si interveniva sul territorio. Oltre ai casi di Covid da seguire a domicilio c’erano i malati con patologie croniche che non avevano più accesso negli ospedali per evitare i contagi. Eravamo gravati di troppi compiti, soffocati dalla burocrazia e dalle circolari, che appesantivano il nostro lavoro, ma siamo andati avanti per senso di responsabilità e per la passione di fare i medici». 

— Tanti medici in fuga dal servizio sanitario, perché? 

«La categoria è stata messa a dura prova dalla pandemia. Sui medici di famiglia si è scaricato il peso enorme della gestione del Covid, siamo stati in trincea per oltre due anni, dovendo affrontare una situazione caotica. Eravamo pochi, solo nel Lazio mancano circa 650 medici. Oltre ai pensionamenti, ci sono le uscite di gente che ha appena 62-63 anni. Di quelli che lasciano ne è stato rimpiazzato neppure un terzo. I pazienti con i medici di famiglia hanno un rapporto di fiducia, dobbiamo garantire la continuità delle cure, ma siamo stanchi di non avere strumenti, a partire da quelli informatici collegati alla rete sanitaria. Per esempio, dovremmo garantire l’accesso ai diversi gradi del Sistema sanitario. Se una donna ha un cancro alla mammella devo darle un percorso, non posso dire arrangiati, telefona al Cup e in bocca al lupo… E qui entrano in gioco le differenze tra regioni, manca un progetto unitario, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, ci dovrebbero essere degli standard qualitativi. E poi, sull’assistenza domiciliare ci hanno coinvolti? No! Troppi tagli di spesa, frammentazioni, logiche ragionieristiche, che con la tutela della salute non vanno d’accordo. Non possiamo continuare con i bilanci a canne d’organo, come se i diversi settori della sanità fossero dei silos separati, come se tagliare da una parte non si riflettesse dall’altra. Dopo il Covid si parla tanto di cure di prossimità, ma è solo uno slogan se non si passa ad una seria programmazione. Il Servizio sanitario nazionale è a pezzi. Anche per questo tanti vogliono appendere il camice al chiodo». 

— È iniziata la campagna per il secondo booster, quarta dose di vaccino anticovid per gli anziani, che cosa ne pensa? 

«I vaccini sono fondamentali, non impediscono l’incidente ma proteggono dalle conseguenze più serie nella stragrande maggioranza dei casi. Ora comunque la situazione è cambiata, per esempio sappiamo che quando una persona è colpita dal Covid e c’è un quadro sintomatico serio se si ricorre agli antivirali entro l’ottavo giorno si scongiurano situazioni più gravi, se non ben gestita la malattia può generare altre patologie e trasformarsi in long Covid. E poi, attenzione alle reinfezioni, possono fare danni ulteriori»

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista professionista, ha lavorato al “Messaggero” dal 1986 al 2010. Prima la “gavetta” in Cronaca di Roma, fondamentale palestra per fare esperienza e imparare il mestiere, scelto per passione. Si è occupata a lungo di degrado della città, con inchieste sugli abusi che hanno deturpato il centro storico. Dal 1997 ha lavorato alle Cronache italiane, con qualifica di vice caposervizio, continuando a scrivere. Un filo rosso attraversa la sua carriera professionale: scuola, università e ricerca per lei hanno sempre meritato attenzione, con servizi e numerose inchieste.