Charlie Chaplin in una scena del film “Tempi moderni”, 1936; sotto il titolo, una operatrice di un call center, con ritmi ancor più forsennati della fabbrica fordista di inizio Novecento, scanditi da un impersonale (e implacabile) algoritmo
Possiamo avere nostalgia del clima di Tempi moderni, il film di Charlie Chaplin: lo scenario del lavoro oggi è quello di nuovi schiavi, costretti a una produttività sancita dai report aziendali e perfino da un semaforo sul computer, che se diventa rosso vuol dire che sei “sotto tiro”. La testimonianza di una lavoratrice in un call center (9 su 10 dipendenti sono donne): «Costrette a far presto e bene anche due operazioni insieme, ormai quasi tutte prendiamo ansiolitici. Ci siamo rivolti all’Asl che ci ha fornito un questionario da compilare sui disturbi da stress sul lavoro. Dalle risposte è emerso un quadro generale significativo. Che abbiamo fatto presente alla direzione. La sua replica è stata di questo genere: non riteneva il questionario impostato con competenza scientifica e quindi le nostre risposte non erano attendibili». Dopo il Covid il lavoro è ri-aumentato e i dipendenti sono diminuiti
L’intervista di ALBERTO GAINO con LUCIA DI BUONO, rappresentante sindacale call center
SEMAFORO ROSSO PER i dipendenti di un call center che non riescano a reggere il ritmo dettato da un algoritmo. Lo scenario del lavoro post-covid, rispetto al quale fa sorridere quello fordista interpretato dal genio di Charlie Chaplin in Tempi Moderni (1936), irrompe in un dibattito nell’aula magna del Politecnico di Torino: un incidente mortale sul lavoro è il tema del film turco Between two dawns proiettato nel quadro della rassegna Job Film Days e il pubblico è in gran parte composto dai cosiddetti Rls, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. L’aria che tira è da chi è andato al cinema e di intervenire non è proprio il momento. Ma non per Lucia Di Buono, piccolina e tutt’altro che esile nella determinazione che ci mette: «Nel mio call center gli ansiolitici li prendono quasi tutti per lo stress di dover fare presto e bene anche due operazioni insieme».
«Le hanno studiate tutte per renderci sempre più produttivi: dal capo che si presenta con il report sull’efficienza di ciascun lavoratore, al semaforo comparso ad un certo punto in un angolo dello schermo del computer: verde arancione rosso lampeggianti. Se compare l’ultimo colore vuol dire che tu, singolo lavoratore che ti sei preso il semaforo rosso, hai toppato e sei sotto tiro. Allora subentra sempre più ansia, vai dal medico che ti prescrive psicofarmaci, al telefono parli con i clienti e devi essere gentile e soprattutto svelta – siamo al 90 per cento donne a lavorare là – guai a scoppiare. Tenere duro vuol dire tenersi il lavoro».
«Accanto al report sull’efficienza di ciascun lavoratore, a un certo punto è comparso un semaforo in un angolo del computer: verde arancione e rosso lampeggianti»
— Che tipo di lavoro?
«Quello di un tour operator passato negli anni dai punti vendita di pacchetti vacanze al business travel. La mia azienda ha un’ampia e importante clientela che il nostro settore commerciale ha attirato e cerca di fidelizzare con contratti molto appetibili: grandi gruppi industriali che spaziano dalle società dell’energia a quelle dell’alta moda. Che telefonano o mandano una email con le loro richieste del momento per la prenotazione di viaggi che si devono organizzare con grande efficienza in un tempo calcolato in base alla tipologia della trasferta e del personale interessato. Chiamare una compagnia ferroviaria o aerea per fissare una frecciarossa o un volo Torino-Roma è roba da 5 minuti, il tempo di scegliere fra l’una e l’altra opzione, in base agli orari di partenza e arrivo richiesti. Poi c’è hotel, il servizio noleggio auto, inclusi il pagamento anticipato da noi e la fattura dell’albergo: sono le opzioni a far la differenza e il tempo per tutte queste operazioni è stato oggetto di un calcolo standard. Quando è comparso sugli schermi dei miei colleghi il semaforo lampeggiante l’orario del verde veniva cadenzato in automatico in base alla tipologia di servizi richiesti».
— Da un algoritmo?
«Non so dirle come sono stati calcolati i tempi di ogni operazione. So che ad un certo punto ci è stato detto che avevamo praticamente un tabellario da rispettare secondo il tipo di prenotazione. Stabilito dal nostro servizio commerciale per rendere attraenti i contratti con la clientela».
«Ci siamo rivolti all’Asl che ci ha fornito un questionario da compilare sui disturbi da stress sul lavoro. Dalle risposte è emerso un quadro generale significativo. Che abbiamo fatto presente alla direzione»
— La rapidità è il biglietto da visita di un servizio di prenotazione efficiente. Ma l’applicazione dei semafori lampeggianti ai computer è qualcosa di più e di diverso. Come l’avete intesa in ufficio?
«Ci siamo rivolti all’Asl che ci ha fornito un questionario da compilare sui disturbi da stress sul lavoro. Dalle risposte è emerso un quadro generale significativo. Che abbiamo fatto presente alla direzione. La sua replica, nello specifico, è stata di questo genere:non riteneva il questionario impostato con competenza scientifica e quindi le nostre risposte non erano attendibili».
— E per quanto riguarda il semaforo applicato sugli schermi del call center?
«Io lavoro in amministrazione e a me il semaforo non l’hanno dato. Ma, come rappresentante sindacale aziendale e anche per la sicurezza, mi sono subito attivata: perché non era cosa, agitava tutti. Immagini: l’arancione compare al posto del verde, madre mia, un po’ come a scuola quando qualche professore ti diceva Hai ancora tre minuti per finire il tema, uno stress unico. Mi sono rivolta al medico dell’azienda e lui ha capito che non si poteva andare avanti a quel modo. L’ha detto alla direzione e i semafori sono scomparsi dagli schermi dei colleghi».
— È successo recentemente?
«Prima del covid. Da febbraio 2020, per quasi un anno, siamo stati praticamente fermi anche noi, di conseguenza ci hanno messo in cassa integrazione a zero ore. Parlo per la mia sede, non per le altre sparse in giro per l’Italia. Solo noi eravamo centinaia prima del covid organizzati in turni di lavoro h24. Devo precisare che, verso la fine del lockdown, si è ricominciato da casa e in ufficio, adottando la modalità della rotazione in cassa integrazione. Adesso l’attività è ripresa come e più di prima del covid, ma i miei colleghi sono una cinquantina in meno».
«Per il covid, da febbraio 2020 e per quasi un anno, siamo stati praticamente fermi anche noi; di conseguenza ci hanno messo in cassa integrazione a zero ore, selezionati per anzianità e acciacchi vari»
— Sono?
«Io e alcuni altri colleghi siamo rimasti in cassaintegrazione a zero ore, selezionati per anzianità e acciacchi vari. C’è anche questo odioso aspetto nel dopo covid del lavoro: io, ad esempio, potrei già andare in pensione, gli anni ce li ho tutti, mi mancano i quattro mesi a partire dai quali dovrei dare ilpreavviso del pensionamento. Penso che nella mia stessa condizione vi siano altri».
— Quindi?
«Continuo a fare la rappresentante sindacale da casa. Mi chiamano al telefono per dirmi: “Siamo sedute davanti al computer e abbiamo la cuffia alle orecchie collegata al telefono, ci chiedono di fare due operazioni in un’una, rispondere ad una chiamata e contemporaneamente trattareuna richiesta via email. Abbiamo paura di sbagliare ed è una continua fonte di stress. Poi ti arriva il capo alle spalle e ti dice che hai sforatotot volte rispetto ai tempi stabiliti, che così non va bene, che devi darti da fare, eccetera”. Capisce? Siamo riusciti ad eliminare il semaforo lampeggiante dagli schermi ma la sostanza è pure peggiore: due operazioni in una».
— Lei è rappresentante sindacale: che cosa si sente rispondere dalla direzione?
«Che tutto si fa per la clientela, per conquistarla e fidelizzarla. Abbiamo per clienti aziende molto importanti ed esigenti. Pretendono giustamente di interfacciarsi con gli stessi nostri addetti. Così sono state organizzate, ormai da anni, le cosiddette isole di lavoro. Che corripondono a piccole squadre, composte da 4 di noi. Ciascuna squadra ha un suo elenco di clienti. Quei quattro conoscono le aziende con cui si interfacciano e accontentarne le richieste è più semplice. Un’organizzazione del lavoro per isole ha una logica se il personale è adeguato per capacità e pazienza, e lo è, ma deve essere anche sufficiente».
«Dopo la cassa integrazione per il covid il lavoro è ri-aumentato ma i dipendenti sono diminuiti»
— Se capisco, gran parte dell’attività di un tour operator che si rispetti, magari collegato a grandi compagnie di trasporto delle persone e delle merci su binari o via mare, è legata alla clientela rappresentata dalle imprese e sempre meno ai pacchetti turistici per famiglie, coppie, piccole comitive.
«È così, si devono considerare anche le varie ed eventuali: il viaggio premio per decine di dipendenti e rappresentanti che la nota azienda nel settore della cosmesi chiede di organizzare in Estremo Oriente. Oppure, nell’ambito dei cosiddetti disastri, l’improvviso innalzamento delle prenotazioni di viaggi all’estero, com’è accaduto di recente per la morte della regina di Inghilterra: il tour operator ha dovuto far fronte a numerosi incarichi di prenotazioni di voli e soprattutto di sistemazioni alberghiere a Londra in giorni di sold out. Soprattutto si è provveduto in quattro e quattr’otto. Ci rendiamo conto? Il lavoro è ri-aumentato e i dipendenti sono diminuiti».
— Ha toccato la questione alla base di tutte le altre.
«Dunque, a parte noi cassintegrati a zero ore nella speranza che ce ne andiamo, ma dove, detto tra parentesi, ad un metro dalla pensione? A parte noi, dicevo, si sono licenziati o si sono fatti licenziare in una cinquantina. E chi resta deve sostituire gli assenti per malattia o altro. Gli straordinari sono diventati obbligatori e le otto ore giornaliere si sono allungate per tanti. Alla fine sono sempre 1200 euro circa al mese, più le domeniche e le notti».
— Una busta paga di 1200 euro: può essere un buon motivo per andarsene?
«Soprattutto se ti devi spostare in auto fuori città ed è un costo in più: la nostra sede è stata delocalizzzata da anni nella cintura torinese e occupa un grande edificio isolato in mezzo alla campagna. Ci metta tutto il resto e pure che, per noi donne, non c’è sicurezza quando usciamo. A partire dallo spiazzo sul retro, attualmente non illuminato e incustodito: le colleghe che escono dall’ufficio di notte hanno giustamente timore di essere aggredite. Guardi, è come se, dopo il covid, ci sia stata una riflessione da parte di un bel po’ di noi: chi ha bisogno di lavorare china la testa, semmai telefona a noi rappresentanti sindacali perché interveniamo, ma ci ripete di non fare nomi, si ha paura di essere poi presi di mira. Ma ci sono stati anche colleghi che, per vari motivi, avendo alternative o altro, han detto basta con questa vita e se ne sono andati».
Giornalista di lungo corso, collaboratore a “il manifesto” nei primi anni Settanta, dal 1981 cronista prima a “Stampa Sera”, poi a “La Stampa”, nella sua carriera si è occupato soprattutto di cronaca giudiziaria. Tra i suoi libri “Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina” (2014) e “Il manicomio dei bambini: Storie di istituzionalizzazione” (2017).
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