Siamo di fronte a un fallimento sistemico, non a un destino inevitabile. I motivi sono chiari: salari troppo bassi, meritocrazia assente, precarietà diffusa, burocrazia soffocante, scarse opportunità di crescita. Dal  2008 ad oggi, oltre 700.000 italiani sono emigrati. Tra questi, più di 200.000 erano laureati. Significa che ogni anno il Paese rinuncia a intere generazioni di talenti, spesso formati con risorse pubbliche, che vanno a contribuire al Pil e all’innovazione di altri Paesi. E c’è un’altra emergenza ignorata: la denatalità, una vera e propria bomba a orologeria. Meno nascite significano meno forza lavoro, meno consumi, meno contributi. Intanto l’età media si alza; pensioni e sanità gravano sempre di più sulle spalle dei pochi giovani rimasti


◆ L’intervento di ALESSIO LATTUCA presidente Movimento per la sostenibilità

In un Paese che affronta contemporaneamente la rivoluzione tecnologica, la fuga dei cervelli, un debito pubblico insostenibile e un crollo demografico senza precedenti, ci si aspetterebbe che la politica, soprattutto in occasione di passaggi cruciali come un referendum, fosse in grado di parlare con chiarezza, responsabilità e visione. E invece, troppo spesso il dibattito si riduce a slogan superficiali, mentre si evita accuratamente di nominare i veri nodi strutturali. Come per esempio il  lavoro nel tempo dell’AI. Per ricordare che l’intelligenza artificiale non è una moda passeggera. È un fattore di discontinuità storica che sta già trasformando la produzione, i servizi, la formazione, la sanità, la pubblica amministrazione. È vero che riduce il bisogno di manodopera tradizionale in molti settori, ma in effetti ne crea di nuova in ambiti altamente specializzati. 

In questo scenario, discutere ancora in termini binari – lavoro in presenza contro smart working – è riduttivo, se non fuorviante. La vera domanda è: come riconvertire la produzione, come garantire dignità, sicurezza e inclusione in un mondo dove il lavoro cambia radicalmente? In un Paese che investe per formare, ma non trattiene. Infatti, dal  2008 ad oggi, oltre 700.000 italiani sono emigrati. Tra questi, più di 200.000 erano laureati. Significa che ogni anno il Paese rinuncia a intere generazioni di talenti, spesso formati con risorse pubbliche, che vanno a contribuire al Pil e all’innovazione di altri Paesi. Questo è un fallimento sistemico, non un destino inevitabile. I motivi sono chiari: salari troppo bassi, meritocrazia assente, precarietà diffusa, burocrazia soffocante, scarse opportunità di crescita. Mentre bisognerebbe impegnarsi per individuare soluzioni per affrontare il peso del debito e il rischio dell’immobilismo. 

Con oltre 3.000 miliardi di debito pubblico, l’Italia non può permettersi sprechi, ma nemmeno paralisi. Il debito può essere sostenuto solo in un contesto di crescita economica e produttività – due elementi che dipendono direttamente dal lavoro qualificato, dall’innovazione e dalla natalità. Ma senza una strategia chiara, si continuerà a vivere alla giornata, incapaci di costruire un futuro solido per le prossime generazioni. Altro problema sul quale riflettere è il calo demografico: emergenza ignorata. La denatalità è una bomba a orologeria. Meno nascite significano meno forza lavoro, meno consumi, meno contributi. Intanto l’età media si alza, e le pensioni e la sanità gravano sempre di più sulle spalle dei pochi giovani rimasti. Questo fenomeno è ancora più grave se si considera che, mentre nascono sempre meno bambini, molti giovani se ne vanno, e chi resta è spesso precario o sottopagato.

Sono, questi, tutti elementi che richiedono risposte e scelte strategiche, non slogan. Occorre riformare il lavoro alla luce dell’innovazione, non dell’ideologia. Investire in formazione continua, università e competenze digitali. Incentivare il rientro dei talenti italiani dall’estero. Sostenere concretamente le famiglie che vogliono avere figli. Snellire lo Stato e sostenere le imprese, soprattutto quelle ad alto valore tecnologico. Utilizzare in modo responsabile il Pnrr, senza sprechi e con una visione d’insieme. Chi ha responsabilità politica non può più limitarsi a inseguire il consenso di breve periodo. Deve prendere in mano il futuro, dire la verità al Paese e progettare il lavoro di domani, non difendere nostalgicamente quello di ieri. È tempo di leadership responsabile. Di competenza. E soprattutto, di coraggio. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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È presidente di Confimpresa Euromed, amministratore delegato Confidi per l’impresa e direttore generale Cofidi Scrl. Imprenditore agrigentino, si batte da anni contro il rigassificatore di Porto Empedocle (sua città natale), che definisce un “progetto folle”, a pochi passi dalla Valle dei Templi, a ridosso della casa di Luigi Pirandello in contrada Kaos.