Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni non erano teorici lontani dalla realtà, ma oppositori attivi al regime fascista, consapevoli che solo una federazione europea avrebbe potuto scongiurare il ritorno delle guerre tra Stati nazionali e impedire la rinascita dei regimi autoritari. Negare o deformare questa radice significa svuotare di senso non solo il Manifesto stesso, ma anche l’intero percorso che ha portato alla nascita della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea. L’Europa immaginata a Ventotene non nasce come semplice alleanza economica, ma come risposta storica e morale alle macerie lasciate dalla guerra e dai regimi totalitari. Un progetto che va oltre l’interesse materiale, una visione di società fondata sul rispetto della persona, sulla giustizia sociale, sulla pace e sulla supremazia del diritto. Pur nei limiti di un’integrazione incompiuta, l’intento originario dell’Europa Unita era e resta quello di creare uno spazio comune che impedisca il ritorno a logiche di conflitto e sopraffazione

In senso orario, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann e Eugenio Colorni; la moglie di Colorni, assieme a Gigliola e Fiorella Spinelli (le sorelle di Altiero) e Ada Rossi (moglie di Ernesto), diffusero il Manifesto mentre i tre autori erano al confino sull’isola pontina; sotto il titolo, Piazza del Popolo, Roma 15 marzo 2025, manifestazione per l’Europa unita (credit foto, GettyImages che qui vivamente si ringrazia)

◆ L’intervento di ALESSIO LATTUCA, presidente Movimento per la sostenibilità

Altiero Spinelli e Ernesto Rossi con il futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi: per i tre esponenti politici liberali e azionisti «il dogma della sovranità assoluta dello Stato è stata la causa della tragedia europea» durante la prima metà del XX Secolo

Il punto centrale nell’attuale dibattito pubblico è ciò che Giorgia Meloni afferma: l’Europa del Manifesto di Ventotene «non è la sua», il che fa emergere una profonda frattura ideologica nel Paese. Il Manifesto di Ventotene nasce, infatti, come documento fondante di un’Europa federale, democratica e antifascista, pensata proprio per superare le tragedie del nazionalismo estremo e dei totalitarismi che avevano portato alla guerra. Il Manifesto non è solo un progetto politico, ma una dichiarazione di valori: democrazia, libertà, solidarietà tra i popoli europei e rifiuto del fascismo e del nazismo. Dunque, se Meloni prende esplicitamente le distanze da quella visione, è naturale che chi si riconosce nei valori della costruzione democratica europea percepisca questa affermazione come un netto segnale politico. 

La precisa presa di posizione di Meloni è il segnale di una linea più nazionalista e meno europeista. Al contrario dell’Europa immaginata a Ventotene che non nasce come semplice alleanza economica, ma come risposta storica e morale alle macerie lasciate dalla guerra e dai regimi totalitari. Si tratta di un progetto che va oltre l’interesse materiale: è una visione di società fondata sul rispetto della persona, sulla giustizia sociale, sulla pace e sulla supremazia del diritto. Anche se oggi l’Unione Europea mostra i limiti di un’integrazione incompiuta – con tutte le tensioni interne e i compromessi politici – l’intento originario era proprio quello di creare uno spazio comune che impedisse il ritorno a logiche di conflitto e sopraffazione. In questo senso, il discorso di Meloni rischia di ridurre quel disegno a una questione di “modelli alternativi”, una sorta di rimozione o la distorsione della memoria storica. 

La faccetta della premier alla Camera durante gli interventi di protesta dopo il suo attacco al Manifesto di Ventotene

Nel suo attacco al Manifesto di Ventotene, la premier sembra ignorare o sminuire volutamente il contesto drammatico in cui esso nacque: un’Europa schiacciata dai totalitarismi e una generazione di intellettuali che, proprio dal confino e sotto la minaccia delle dittature, elaborava un progetto di emancipazione e di pace duratura. Spinelli, Rossi e Colorni non erano teorici lontani dalla realtà, ma oppositori attivi al regime fascista, consapevoli che solo una federazione europea avrebbe potuto scongiurare il ritorno delle guerre tra Stati nazionali e impedire la rinascita dei regimi autoritari. Negare o deformare questa radice significa svuotare di senso non solo il Manifesto stesso, ma anche l’intero percorso che ha portato alla nascita della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea. 

Questa lettura revisionista, che tenta di trasformare i padri del progetto europeo in figure sospette o faziose, sembra rispondere più a una strategia politica interna (contro la sinistra) che a un’analisi storica onesta. In effetti una delle contraddizioni più profonde del dibattito politico odierno sembrerebbe l’incapacità (o la volontà) di strappare singole frasi dal loro contesto storico e dall’evoluzione del pensiero dei protagonisti per piegarle alle narrazioni attuali. Senza considerare che il Manifesto di Ventotene,  nasce in un’epoca di crisi estrema, in cui l’idea di un’Europa federale e solidale era quasi utopica rispetto al panorama dell’epoca. Le tensioni interne al testo – tra idealismo rivoluzionario e pragmatismo democratico – sono figlie del momento in cui è stato scritto. Spinelli stesso, negli anni successivi, rielaborerà molte delle sue posizioni, mantenendo però intatta la visione di un’Europa capace di superare i nazionalismi per garantire la pace e i diritti. Il fatto che la premier (o chi per lei) ne recuperi le parti più radicali per liquidare l’intero impianto del Manifesto come «socialismo autoritario» è un’operazione che semplifica e distorce. In sostanza, sembra che ci sia una volontà di riscrivere le radici dell’Unione Europea, per staccarla dalla sua matrice antifascista e democratica.

Il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, e la prima ministra dell’Italia, Giorgia Meloni

L’idea di Europa della destra di oggi è quella di un’Europa degli Stati nazionali forti e sovrani, che rifiuta cessioni di sovranità in nome di un progetto federale o di una governance comune troppo vincolante. Un’Europa vista come confederazione debole, dove i singoli governi possono decidere in autonomia su immigrazione, giustizia sociale, diritti civili, e solo in secondo piano sull’economia. Una visione che privilegia i confini, l’identità nazionale e il controllo, rispetto all’integrazione e alla solidarietà. Quanto all’Occidente, la destra sovranista tende a recuperare un’idea di Occidente legata più alla difesa dei valori tradizionali (cristianesimo, famiglia, ordine) che a quella visione liberale e pluralista su cui si è fondata l’alleanza euro-atlantica dopo la Seconda guerra mondiale. Un Occidente spesso narrato come baluardo “contro” – contro l’immigrazione incontrollata, contro l’espansione di potenze non occidentali, ma anche contro derive globaliste e multiculturali.

Dietro questa visione si intravede un’idea di democrazia ancora parziale e fragile: una democrazia che non si riconosce sempre fino in fondo nella Costituzione antifascista, che tende a subordinare la libertà e i diritti ai valori identitari e alla forza della Nazione. In definitiva, la vera domanda che resta sospesa è proprio questa: se la destra estrema oggi al governo considera la democrazia liberale e costituzionale un punto di arrivo definitivo o solo un mezzo, modificabile, funzionale al rafforzamento del potere nazionale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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È presidente di Confimpresa Euromed, amministratore delegato Confidi per l’impresa e direttore generale Cofidi Scrl. Imprenditore agrigentino, si batte da anni contro il rigassificatore di Porto Empedocle (sua città natale), che definisce un “progetto folle”, a pochi passi dalla Valle dei Templi, a ridosso della casa di Luigi Pirandello in contrada Kaos.