Fra quattro giorni sapremo come andrà a finire la sfida su chi varcherà la porta, pacificamente, di Capitol Hill. I big dello spettacolo (per Harris) e gli oligarchi miliardari (per Trump) ci hanno già fatto sapere come la pensano e cosa sceglieranno martedì prossimo. Verrebbe da pensare che in fondo siano fatti loro, però sappiamo che la questione non può essere liquidata con un’alzata di spalle, perché le decisioni prese oltreoceano riguardano anche noi. Tra la delusione per la presidenza Biden e le pulsioni autoritarie di Trump, solo un miracolo potrebbe portare alla Casa Bianca la vice del presidente in carica. E, per “il malfattore”, spuntano voti ‘anticonformisti’: dedicandosi agli affari degli americani farebbe meno danni al mondo?
◆ L’intervento di BATTISTA GARDONCINI *
► Martedì 5 novembre gli Stati Uniti andranno al voto per scegliere il nuovo presidente. Fino a pochi giorni fa la grande stampa americana, in larga parte schierata con i democratici, aveva tentato di accreditare l’idea di una competizione aperta tra due candidati sostanzialmente alla pari. Ma più la data si avvicina, più appare chiaro che soltanto un miracolo potrebbe portare alla Casa Bianca Kamala Harris. I sondaggi veri indicano che Donald Trump vincerà, e anche i suoi peggiori nemici sembrano rassegnati all’idea. La decisione delle proprietà del Washington Post e del Los Angeles Times di impedire la pubblicazione degli endorsement redazionali alla candidata democratica è da questo punto di vista più significativa dello stillicidio di dichiarazioni a suo favore provenienti da cantanti, attori e Premi Nobel. Tutte persone di grande spicco, per carità, ma notoriamente inadatte a spostare voti. Per quello che può valere, quella che segue è la mia opinione.
Trump è un malfattore, e concordo con il duro giudizio espresso su di lui pochi giorni fa dal New York Times: «è difficile immaginare un candidato più indegno di lui a servire come presidente degli Stati Uniti. Ha dimostrato di non essere moralmente adatto a un incarico che richiede di mettere il bene della nazione al di sopra degli interessi personali, e dal punto di vista caratteriale gli mancano quasi tutte le qualità richieste dal ruolo, la saggezza, l’onestà, l’empatia, il coraggio, l’umiltà, la moderazione e la disciplina».
Ma Kamala Harris è una incapace, o almeno è stata considerata tale dalla maggioranza degli americani, senza distinzioni di partito, negli anni della sua disastrosa vicepresidenza. Ha fallito quando si è occupata della spinosa questione dell’immigrazione clandestina. Poi ha cercato, sempre senza successo, di ritagliarsi spazi su temi meno complessi. Alla fine Biden è stato costretto ad affidarle le missioni di rappresentanza all’estero, dove ha inanellato una clamorosa serie di gaffe. Hanno fatto sensazione le sue sguaiate risate durante una conferenza stampa congiunta con il presidente polacco Duda sul delicato tema dei rifugiati ucraini. In più, a detta dei molti che hanno lavorato con lei e hanno preferito dare le dimissioni, è scostante, arrogante e vendicativa.
Certo, chiunque occupi una carica pubblica così importante può essere oggetto di critiche ingenerose, attacchi malevoli e diffamazioni variamente assortite. Ma nel caso di Kamala Harris un fondo di verità sicuramente c’è. Non è un mistero, infatti, che l’imperdonabile ritardo dei democratici nella scelta del candidato presidente non sia dipeso soltanto dai tentennamenti senili di Biden, ma anche dalla riluttanza di molti big del partito a concedere anzitempo le redini del potere alla sua vicepresidente. Non invidio gli elettori americani, chiamati a scegliere tra un malfattore e una incapace. Verrebbe da pensare che in fondo siano fatti loro, però sappiamo fin troppo bene che la questione non può essere liquidata con una semplice alzata di spalle, perché le decisioni prese oltreoceano riguardano anche noi.
Quattro anni fa, come tanti altri, ero convinto che la vittoria di Biden contro Trump avrebbe cambiato in meglio le cose. Oggi, purtroppo, prevale la delusione: credo che Biden sia stato un pessimo presidente perché non ha capito che oltre la metà degli abitanti della Terra non riconosce più agli Stati Uniti il ruolo egemone esercitato finora. I vecchi equilibri stanno saltando, l’impero americano traballa. Ed è per puntellarlo che Biden – o chi ha preso le decisioni per lui negli anni del suo declino mentale – ha scelto di intervenire in tutte le situazioni di crisi. Dall’Ucraina al Medio Oriente, da Taiwan all’Africa, il copione è sempre lo stesso, ed è sempre meno convincente. Da una parte ci sono i cattivi che vogliono distruggere la democrazia, dall’altra i buoni con il sostegno dei soldi, delle armi e dei soldati a stelle e strisce.
Kamala Harris è parte del sistema di potere che condivide senza tentennamenti questo modo di pensare. Nel corso della sua campagna elettorale ha tentato di barcamenarsi, ma non ha mai preso le distanze dalla politica estera di Biden e tutto fa pensare che andrebbe avanti lungo la stessa linea. Donald Trump, al contrario, non sembra particolarmente interessato alla politica estera, a meno che non abbia rilevanza per l’economia americana. È un uomo d’affari, non un idealista, e lo ha dimostrato. Dice tante cose, spesso a sproposito, ma non mente quando fa notare di essere stato l’unico presidente degli Stati Uniti a non avere mai iniziato una guerra. E ci sono buone probabilità che il suo secondo mandato presidenziale andrebbe nella direzione di un ripiegamento del paese sui suoi problemi interni.
Per questo, consapevole che potrei amaramente pentirmene, se proprio dovessi scegliere tra il malfattore e l’incapace, voterei per il malfattore. © RIPRODUZIONE RISERVATA
(*) L’autore dirige oltreilponte.org