
L’analisi di STEFANO RIZZO, americanista
IL LUNGO E APPASSIONATO discorso di Joe Biden martedì 31 agosto alla Casa Bianca non sarà l’ultima parola sulla guerra in Afganistan e sulle molte altre guerre americane del ventennio 2001-2021 — Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Somalia… — e rimane aperto a severe critiche di omissione. Non una parola infatti sugli alleati, sulla missione Isaf, sugli oltre 1000 caduti europei e di altri paesi della Nato, sui 4000 contractors americani e stranieri morti; soprattutto non una parola sulla decina di migliaia di civili afgani uccisi dai soldati americani, non solo come “danno collaterale” e si pretende non intenzionale di bombardamenti dall’alto, ma massacrati gratuitamente in azioni sadiche e scellerate per le quali quasi nessuno è stato condannato (e per i pochi che lo sono stati è arrivata l’amnistia del precedente presidente). Non una parola sugli stupri, i rapimenti, le torture di cui nel corso degli anni si sono resi responsabili i militari americani e gli agenti della Cia nella famigerata base di Bagram e nelle altre decine di basi in Afghanistan oltre che nelle prigioni segrete sparse in tutto il mondo — migliaia di episodi denunciati dalle organizzazioni umanitarie e dalla stessa stampa americana. E infine non una parola su quanto questi comportamenti disumani e contrari al diritto di guerra abbiano contribuito a rafforzare e ad espandere il terrorismo internazionale di matrice islamista invece di contrastarlo e sconfiggerlo.

E tuttavia, nonostante queste omissioni, il discorso di Biden segna un punto di svolta nella politica americana e nell’ipertrofico interventismo della più grande potenza militare del mondo. Ci aveva già provato Obama fin dal 2009 con una serie di discorsi e di prese di posizioni che gli erano valsi il premio Nobel per la pace. Ma poi aveva deciso di intervenire in Libia e in Siria, e anche se nel 2011 aveva posto fine all’altra “guerra senza fine”, quella in Iraq, si era lasciato convincere dai suoi generali a quasi raddoppiare il numero di soldati in Afghanistan (la cosiddetta “surge”), portandoli a 130.000 nella speranza di porre fine al conflitto con i talebani — con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Ora, completato il ritiro definitivo anche dall’Afghanistan nella maniera tumultuosa e sanguinosa che si è vista, Biden afferma di volere imparare dagli errori del passato, cioè dagli errori commessi dai suoi predecessori, Obama compreso. Nel discorso dell’altro ieri ha enunciato la sua “dottrina” militare (così si chiamano i pronunciamenti strategici di politica estera dei presidenti, dalla dottrina Truman che fu alla base della guerra fredda in poi). Biden lo dice con chiarezza: Primo, nelle nostre missioni militari dobbiamo porci obbiettivi chiari e raggiungibili, non obbiettivi che non potremmo mai raggiungere; secondo, dobbiamo intervenire solo quando gli interessi vitali e la sicurezza degli Stati Uniti sono minacciati; terzo, dobbiamo abbandonare l’illusione di potere ricostruire un paese a nostra immagine e somiglianza, rendendolo libero e democratico e rispettoso dei diritti umani, quando per secoli nessuno ci è riuscito.

Se riflettiamo sul fatto che tutta questa vacua retorica è andata avanti per anni e anni (anche se col passare del tempo con sempre minore convinzione) ed è stata fatta propria acriticamente da molti governi occidentali obbedendo all’imperativo di stare sempre e comunque a fianco del più potente alleato… Non possiamo che prendere atto che quella di Biden è stata una svolta epocale. Lui afferma che dobbiamo imparare dai nostri errori. Sarebbe bene che un’analoga autocritica venisse anche dai vertici della Nato, il cui segretario generale Stoltenberg fino a ieri continuava a magnificare gli “importanti risultati” della missione Isaf, e da tutti quei paesi europei che in questo ventennio si sono piegati alla volontà americana, non solo con l’invio di truppe, ma anche avallando e talora collaborando alle pratiche più brutali della lotta al terrorismo (carceri segrete, rapimenti, torture).

E tuttavia, per quanto innovativo, il discorso di Biden lascia molti punti in sospeso. La guerra al terrorismo iniziata nel 2001 è durata in Afghanistan venti anni. Ma nel resto del mondo continua. Lo studio della Brown University che lo stesso Biden cita nel suo discorso dice proprio questo: tolto dallo scacchiere l’Afghanistan, gli Stati Uniti sono ancora presenti con operazioni di antiterrorismo in 84 paesi, dalle Filippine all’America latina, passando per l’Africa e il Medio Oriente; in 40 di questi paesi conducono esercizi militari e di addestramento all’antiterrorismo con truppe locali; in 11 paesi sono presenti anche con truppe di terra, mentre in 6 compiono “solo” bombardamenti dall’alto con droni e missili e con i prevedibili risultati che si sono visti anche nell’ultimo attacco a Kabul che ha provocato dieci vittime civili, tra cui sette bambini.
Biden ha promesso nei termini più recisi che la guerra al terrorismo continuerà e che gli Stati Uniti “non dimenticano e non perdonano” e “daranno la caccia a chiunque gli vuole fare del male ovunque si trovi nel mondo”. Ma non sarebbe anche il caso di riflettere che è precisamente questo tipo di guerra al terrorismo, che si pretende mirata ma è di fatto indiscriminata, che rischia di alimentarlo? Se i talebani hanno vinto in Afghanistan, nonostante le molte asserite buone cose fatte dagli invasori e l’instaurarsi di un regime a parole democratico, ci sarà pure una ragione. Non è forse tutta la strategia della “guerra al terrore” iniziata nel 2001 che va ripensata e cambiata radicalmente se veramente si vuole imparare dagli errori del passato? © RIPRODUZIONE RISERVATA