Pur potendosi permettere quasi tutto — svuotamento delle funzioni parlamentari in primo luogo con l’uso indiscriminato della decretazione d’urgenza persino per licenziare qualcuno —, la premier non si sente troppo al sicuro. Il 78% dell’attività legislativa è svolta dal suo governo con decreti-legge. E la media delle leggi approvate dalle camere è di quattro al mese, la più bassa degli ultimi quindici anni. Nessuno più di lei sa quanto esigua sia oggi la sua base parlamentare, pur nella legittimità del risultato elettorale e del suo esecutivo. Il 26% dei suoi consensi sono calcolati sulla base del 64% dei votanti complessivi — in cifre assolute 12,3 milioni per tutto il centro destra, persino meno dei voti di cinque anni prima. Numeri che non le danno alcuna legittimità morale a stravolgere la Costituzione come minaccia di fare la finta underdog, abbaiando alla luna
Questo editoriale apre il numero 38 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dal 19 maggio 2023
L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ
DOPO L’UNO-DUE su 25 Aprile e Primo Maggio per scalfire le fondamenta della nostra Repubblica, mancava il fatidico tre. Ed è arrivato sette giorni dopo, col 75° anniversario del Senato repubblicano celebrato sulle note di “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, giusto a ridosso del diversivo della riforma costituzionale lanciata dalla premier. L’aula della Camera Alta è stata trasformata in un avvilente karaoke, col Presidente Mattarella costretto ad abbozzare allo spettacolino inscenato dal suo vicario (dio non voglia) con le canzonette on demand chieste da La Russa a Gianni Morandi. E ad abbozzare, di lì a qualche giorno, è stato costretto anche Papa Francesco. Agli Stati generali della natalità s’è trovato di fianco Giorgia Meloni di bianco vestita che si scompiscia alla battuta del Pontefice sull’inattesa mise comune: la papessa piegata in due, con quell’eleganza innata che il mondo ci invidia.
L’arma di distrazione di massa della propaganda ha funzionato ancora. Le difficoltà di mettere a punto progetti adeguati a spendere i fondi del Pnrr per tenere assieme il Paese escono dai radar — se non per le uscite sullo «smantellamento del Pnrr» annunciato più volte dal ministro-plenipotenziario Fitto. E tutti, di volta in volta, a parlar d’altro: dei nazisti “musicanti” o delle scempiaggini del ministro cognato. Mai sottovalutare la destra sulla comunicazione di massa. È maestra. Come insegna ampiamente la storia, da Mussolini in giù.

L’acrimonia comportamentale della destra post fascista oggi ha qualcosa in più e un’unica spiegazione possibile. Questa Repubblica, di cui godono — con ogni evidenza — tutti i privilegi, non ce la fanno proprio a sentirla come casa loro. Sarebbe un doveroso atto di onestà intellettuale, se ce lo dicessero apertamente. D’altronde, la nipotina politica del teatrante e fucilatore di partigiani Almirante — nel cui mito è stata allattata nella sezione missina di Colle Oppio — non poteva che rinverdire l’ostilità dei suoi maestri nei confronti della Repubblica parlamentare. Fatta oggi a pezzettini con il regionalismo differenziato, e la colla del comando unificato messa nelle mani del presidente carismatico eletto dal popolo. Questo il quadro a cui si perviene unendo i puntini dell’intero disegno.
Perché lo fa? Pur potendosi permettere quasi tutto — svuotamento delle funzioni parlamentari in primo luogo, stante l’uso indiscriminato della decretazione d’urgenza persino per licenziare qualcuno —, la premier non si sente troppo al sicuro. Carpe diem, meglio cogliere l’attimo subito. Il 78% dell’attività legislativa è svolta dal suo governo con decreti-legge. E la media delle leggi approvate dalle camere è di quattro al mese, la più bassa degli ultimi quindici anni. Nessuno più di lei sa quanto esigua sia oggi la sua base parlamentare, pur nella legittimità del risultato elettorale e del suo esecutivo. Il 26% dei suoi consensi sono calcolati sulla base del 64% degli aventi diritto al voto — in cifre assolute 12,3 milioni per tutto il centro destra, persino meno dei voti di cinque anni prima. Numeri che non le danno alcuna legittimità morale a stravolgere la Costituzione.
Quando la premier minaccia di andare avanti comunque — anche da sola —, l’opposizione questo dovrebbe saperlo: Giorgia Meloni abbaia alla luna. E l’ululato in falsetto può impressionare solo le anime pavide che nell’Italia di oggi abbondano. Dove sono i liberali benpensanti? Acquattato sotto il tavolo per raccogliere le briciole, qualcuno c’è sempre. I più appaiono, al solito, mitridatizzati dalla giovin signora, underdog per finta. La raggelante censura preventiva di Ricardo Franco Levi (già portavoce di Prodi e di Veltroni) al fisico Carlo Rovelli — cancellato dalla lista dei relatori per non mettere in pericolo una giornata di «orgoglio nazionale» alla cerimonia di apertura di una prestigiosa fiera del libro (il prossimo anno!) — ci racconta molto di questo nostro Paese. E richiama alla mente l’“Autobiografia della nazione” del giovanissimo liberale Piero Gobetti.

Se si volesse fare sul serio, un succo utile da quarant’anni di riflessioni e confronti sulle riforme istituzionali lo si potrebbe pure cavar fuori. E senza tanto sforzo. L’introduzione della sfiducia costruttiva per il premier sarebbe già sufficiente. Una qualche forma di cancellierato, abbinato ad una più efficace rappresentanza elettorale (come in Germania), resterebbe nel quadro della Repubblica parlamentare disegnata dai padri costituenti all’indomani dalla tragica sbornia dell’uomo solo al comando. Se ci tengono tanto, allora si impegnino sul serio maggioranza e opposizione, ad un paio di condizioni. Le ha ricordate nei giorni scorsi Rino Formica, socialista lucido e senza peli sulla lingua, richiamando il disegno di legge costituzionale presentato nel 2008 (primo firmatario Oscar Luigi Scalfaro) dopo la bocciatura del referendum voluto da Berlusconi a giugno del 2006. Ecco come le riassume Formica: «Ogni revisione costituzionale, per prima cosa, deve essere approvata da almeno i due terzi del parlamento. La seconda: in ogni caso, persino con l’approvazione unanime, la modifica andrà sottoposta al referendum costituzionale obbligatorio».
Ma l’obiettivo della destra-destra non è la soluzione dei problemi quanto l’agitazione identitaria. Nel suo mirino ci sono gli equilibri costituzionali su cui è incardinata la Repubblica antifascista: la figura di garanzia democratica del Capo dello Stato, incarnata oggi egregiamente da Sergio Mattarella, e le funzioni della Corte costituzionale a protezione dei fondamentali repubblicani. La destra meloniana — tanto popolare come pensa di essere — non dovrebbe avere difficoltà a consegnare lo scettro finale al popolo sovrano attraverso il referendum costituzionale. Se invece l’obiettivo del suo progetto è restaurare la sovranità del tiranno, allora sì: «perché non un re?». La reazione secca della segretaria del Pd stavolta ha centrato il bersaglio. Con queste poche parole. © RIPRODUZIONE RISERVATA