I finanziamenti per attività di ricerca, borse di studio e sponsorizzazioni in decine di atenei europei sono stati messi sotto la lente di ingrandimento del consorzio europeo “Investigate Europe” e di “openDemocracy”. Emerge che, tra il 2017 e il 2022, almeno 260 milioni sono stati erogati a 150 accademie di nove Paesi ma le somme potrebbero essere più alte: molti istituti non rispondono alle richieste d’informazione, e gli sponsor si appellano alla «segretezza degli interessi economici e commerciali» per vincolare le università a non diffondere dati sulle somme ricevute o sulla loro destinazione d’uso. Nel solo 2022, l’Eni ha «finanziato con circa 10 milioni di euro» gli atenei italiani. «Spesso l’industria petrolifera cerca visibilità presso il pubblico facendo partnership con le strutture culturali e scientifiche, ma poi non fornisce i dettagli di questi accordi», dice Marco Grasso, professore di geografia politica all’Università Milano-Bicocca. Secondo Stuart Parkinson, direttore dell’associazione britannica Scientists for Global Responsibility, le università devono assumere una posizione più decisa sulla provenienza dei fondi, come è stato fatto già fatto con l’industria del tabacco. Riparte un altro anno accademico e la situazione è sempre quella degli anni precedenti. Di seguito ripubblichiamo il testo dell’inchiesta ringraziando il media britannico per il gran lavoro fatto fin qui


◆ L’inchiesta di LORENZO BUZZONI, JULIET FERGUSONE e CHRIS MATTHEWS, Investigate Europe / openDemocracy *

Illustrazione da openDemocracy (credit)

Negli ultimi sei anni le compagnie Oil & Gas hanno speso almeno 260 milioni di euro per finanziare attività di ricerca, borse di studio e sponsorizzazioni in decine di università europee. È quanto emerge da un’inchiesta del consorzio europeo Investigate Europe (Ie) e il media britannico openDemocracy che hanno inviato domande di accesso civico (Foia) a più di 150 università di nove Paesi europei. Dal 2017 al 2022 in Italia, Austria, Irlanda, Norvegia, Polonia, Spagna, Svezia e Svizzera le università hanno ricevuto da aziende fossili in totale almeno 90 milioni. «Con le donazioni alle università, nel migliore dei casi le aziende fossili stanno cercando di rendere più ecologica la loro immagine associandosi a istituzioni rispettabili. Nel peggiore, cercano di distorcere la ricerca in modo da contribuire a inserire i combustibili fossili nel nostro futuro energetico», dice Alice Harrison della Ong Global Witness.

L’Università norvegese di scienza e tecnologia (Ntnu) ha intascato 29 milioni di finanziamenti da Equinor, Bp, Shell, Exxon, Total e ConocoPhillips. «Abbiamo una collaborazione di lunga data con l’industria petrolifera. Molte delle attività riguardano lo sviluppo tecnologico, ma i temi includono anche le strategie di transizione energetica, i sistemi sostenibili, la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs), l’ecologia e gli effetti sociali della transizione energetica», ha detto Toril Nagelhus Hernes, prorettore di Ntnu. In Spagna, almeno 3,5 milioni sono andati ad alcune delle migliori università spagnole. Dal 2016 al 2023 nel Regno Unito, 60 università hanno ricevuto in totale almeno 170 milioni, con Shell e Bp come maggiori contribuenti.

(credit Shutterstock)

In Italia, Investigate Europe ha richiesto alle 67 università statali informazioni su finanziamenti, donazioni e sovvenzioni ricevuti dalle aziende fossili. Nove hanno dichiarato di aver ricevuto fondi da Snam, Eni, TotalEnergies e Shell nel periodo 2017-22 per 5 milioni totali. L’Università Milano-Bicocca è prima per somme ottenute (2,2 milioni), seguita da quelle di Genova (1,2 milioni) e di Padova (750 mila). Ma i finanziamenti sono inferiori a quanto davvero percepito dalle università. Investigate Europe ha contattato più di 150 università europee: diverse hanno fornito risposte, ma altre sono state poco trasparenti. In Portogallo, “l’autonomia universitaria” esenta le università dagli obblighi di trasparenza validi per altre istituzioni statali. In Polonia, le richieste sono state inviate a 21 università, ma solo cinque hanno risposto. In Italia, sebbene la pubblica amministrazione sia obbligata a rispondere a richieste Foia (Freedom of Information Act), metà circa delle università non ha risposto e in alcuni casi l’accesso è stato negato. Tra le motivazioni «la mancanza di interesse pubblico» o la difesa della «segretezza degli interessi economici e commerciali» delle aziende. Ciò rende difficile, se non impossibile, ottenere cifre attendibili sulle somme che le università hanno ricevuto da aziende fossili. Basti pensare che Eni ha risposto che nel solo 2022 ha «finanziato con circa 10 milioni di euro» gli atenei italiani.

L’Università Federico II di Napoli, dopo la richiesta Foia, si è offerta di fornire gli importi dei finanziamenti per ogni progetto, senza informazioni specifiche sul loro contenuto. Eni si è opposta, sostenendo che l’informazione avrebbe causato «danni concreti» ai suoi interessi commerciali. Alla fine, non è stato fornito alcun dato. Altre volte le informazioni sono state fornite in modo parziale. È il caso dell’Università della Basilicata dove Shell finanzia il Master di secondo livello in Petroleum Geosciences & Geoscience for Energy Transition. L’università, dopo essersi consultata con Shell, ha fornito a Ie l’elenco con le destinazioni dei fondi senza la cifra ricevuta.

L’Università del Piemonte Orientale ha ricevuto nel 2020 circa 65 mila euro da Eni per finanziare borse di dottorato in Chimica e Biologia. «In una nazione in cui si finanzia poco la ricerca con fondi pubblici, occorre approvvigionarsi di fondi anche dai privati», ha detto il rettore dell’Università del Piemonte Orientale, sottolineando «che le regole ‘di ingaggio’ devono essere chiare e indipendenti, per salvaguardare il bene pubblico e non incappare in problemi di indipendenza».

Ma le aziende fossili ostacolano l’accesso alle informazioni, evitando di rendere pubblici gli accordi. «I contenuti delle intese presentano profili di riservatezza e confidenzialità, la loro rivelazione potrebbe pregiudicare il buon esito delle attività di ricerca in corso, con conseguenti gravi danni per Eni, che negli ultimi 10 anni sta investendo miliardi (con relativo rischio di impresa) in ricerca e sviluppo di tecnologie legate alla transizione energetica» ha risposto Eni.

«Spesso l’industria petrolifera cerca visibilità presso il pubblico facendo partnership con le strutture culturali e scientifiche, ma poi non fornisce i dettagli di questi accordi», dice Marco Grasso, professore di geografia politica all’Università Milano-Bicocca che nel novembre 2022 si è dimesso dal ruolo di direttore di un’unità di ricerca, in segno di protesta contro la mancanza di trasparenza sulla natura dei progetti dell’accordo da 1,3 milioni fatto tra l’università ed Eni. «Per quanto riguarda la collaborazione con Eni sono attivi solo contratti sui temi della decarbonizzazione e transizione ecologica. Tutti argomenti che non contemplano nessuna applicazione che riguardi il fossile», ha risposto a Ie l’Università di Milano-Bicocca, confermando che tra gli ambiti di ricerca c’è anche il Carbon Capture Storage (Ccs), la tecnica di cattura e confinamento della Co2. «Il Ccs è qualcosa che l’industria dei combustibili fossili è particolarmente interessata a promuovere, perché è una carta a loro favore per continuare a produrre petrolio e gas», ha detto Alice Harrison di Global Witness.

La presenza dell’industria fossile nelle università va oltre i finanziamenti. In Italia, Eni è presente in almeno quattro comitati di indirizzo universitari. In Francia, un’analisi di Greenpeace sugli enti pubblici di ricerca ha mostrato che più della metà aveva legami con Total, la quale in una dichiarazione ha affermato che lavora con le università «per definire progetti di ricerca basati sulle loro aree di competenza. La loro indipendenza è garantita. TotalEnergies non interviene in alcun modo nella loro strategia o governance».

Secondo Stuart Parkinson, direttore dell’associazione britannica Scientists for Global Responsibility, le università devono assumere una posizione più decisa sulla provenienza dei fondi, come hanno fatto in passato con l’industria del tabacco. «Alla fine quei fondi sono stati rifiutati perché ritenuti poco efficaci per le pubbliche relazioni. Dovremmo seguire la stessa strada con l’industria dei combustibili fossili».

(*) https://www.investigate-europe.eu/posts/european-universities-accept-260-million-euros-fossil-fuel-money

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