Fumi inquinanti, polveri sottili, Pcb, diossina “et similia” devastano da decenni la vita dei tarantini, nell’indifferenza dei padroni delle ferriere e l’inerzia di tutti i governi. «Da “geronte” della “Gerusia” spartana, sul sedile di pietra al centro dell’Agorà di Archita vorrei vedere sfilare davanti, a capo chino, quelli che hanno stroncato il destino di questa polis e di molte altre poleis del nostro Sud. E, per una volta, nella circostanza della “poinè”, sfiderei persino il virus cinese: non indosserei alcuna mascherina e griderei, senza impedimenti, tutto il mio, il nostro dolore, per come ci hanno ridotti»
Il racconto di ARTURO GUASTELLA, da Taranto
¶¶¶ Se tornassero gli Eubei… Essi, gli Eubei, oltre ad essere con i Micenei i marinai più arditi dell’antichità, ed aver fondato le prime colonie in Magna Grecia e in Sicilia, erano gli eredi più ortodossi del cosiddetto “Diritto Omerico”. Una dottrina che faceva una distinzione netta fra la “cultura della vergogna” e la “cultura della colpa”. Nella prima – ha spiegato il francese Clemens Krause – il rispetto delle regole non si ottiene mediante l’imposizione di divieti ma si prende atto semplicemente di una serie di impedimenti, cui non si può opporre resistenza (ecco la vergogna di non poter agire come si vorrebbe e si dovrebbe), mentre nella cultura della colpa chi tiene un comportamento scorretto si sente oppresso da un senso misto di colpa, di rimorso e di angoscia.
Forse, però, ciò poteva accadere nell’antichità. Vi immaginate se, adesso, i Riva, i governi che hanno reiterato l’immunità penale agli “untori” del colosso siderurgico di Taranto, coloro che hanno chiuso gli occhi quando il Sud veniva sommerso dai rifiuti tossici – e l’ambiente devastato forse in maniera irreparabile – possano essere mai sfiorati da quel senso di colpa che attanagliava gli antichi Greci? La vergogna. Questa sì, la proviamo noi tutti, gli sfortunati abitanti di questo lembo di Puglia “agiti” − come direbbero gli antropologi − da fumi inquinanti, polveri sottili, Pcb, diossina “et similia”, senza poterci in qualche modo opporre. Ci piacerebbe, a questo punto, che almeno una parte di quel “Diritto Omerico” potesse trovare qui una sua piccola applicazione.
Scontato che i “soggetti” di cui innanzi non terrebbero in alcuna considerazione il cosiddetto “demou phemis” − quella reputazione la cui mancanza di onorabilità, era, per i Greci, la più terribile delle gogne − allora bisognerebbe applicare il cosiddetto “timè”, legato all’onore di chi subisce il torto. Per ristabilirlo, Omero suggeriva qualsiasi mezzo, persino il ricorso alle armi. Quando, infatti, nell’Odissea, Telemaco, il figlio di Ulisse, si reca a Pilo per cercare notizie del padre, il saggio Nestore, re della città, lo esorta a non subire le prepotenze dei Proci. «Pensa a Oreste – gli dice – che, uccidendo Egisto, vendicò l’assassinio del padre Agamennone, fai che così ci sia chi ti ricordi e ti lodi tra i tardi nipoti».
Qui, non voglio suggerire ai nostri baldi sindaci e governatori delle regioni meridionali di impugnare la spada, ma almeno di pretendere, come suggerito dallo stesso Omero, una compensazione (poinè) in danaro o in opere, che, nell’antichità, doveva essere consegnata solennemente all’offeso, in presenza di tutto il popolo. Quando offesa era stata un’intera città, come nel caso di Eretria, nella cosiddetta guerra “lelanzia”, il compenso doveva essere ingente e tale da lenire il vulnus sofferto. Era accaduto che gli “Ippobotai” – i nobili allevatori di cavalli di Calcide e della stessa Eretria, in guerra fra loro – avevano deciso che negli scontri non si dovessero usare i giavellotti, che troppo spesso colpivano i poveri animali. I Calcidesi non erano stati però ai patti, per cui furono condannati dalla “Lega Lelanzia” a pagare la “poinè”. E, per accertare che questo risarcimento fosse congruo, venivano chiamati gli anziani della comunità, per i quali erano stati approntati sedili di pietra, disposti a circolo, nell’agorà (la piazza principale) della polis. Dopo aver ricevuto dagli araldi lo scettro, simbolo del potere, essi stabilivano se il risarcimento era sufficiente o se doveva essere integrato.
Mi piacerebbe sedermi nell’antica agorà − dato che, a buon diritto, posso essere annoverato tra gli “gerontes” della città di Archita (ma non nel senso di anziano svampito e un po’ rincoglionito, quanto in quello, dignitoso, dei membri anziani della “Gerusia” spartana) − e vedere sfilare davanti, a capo chino, tutti quelli che hanno stroncato il destino di questa polis e di molte altre poleis del nostro Sud. E, per una volta, nella circostanza della “poinè”, sfiderei persino il virus cinese, e non indosserei alcuna mascherina, per la soddisfazione di poter gridare a gran voce, senza impedimenti, tutto il mio, il nostro dolore, per come ci hanno ridotti. ♦ © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Foto: sotto il titolo, le colonne del Tempio di Poseidone; al centro, Persefone, la dea di Taranto (copia dal museo di Berlino); in basso a destra, l’acciaieria vista dal Mar Piccolo