Qui e sotto il titolo, l’ingresso del centro sociale Askatasuna

Da una radio libera nata nel 1992 nasce un percorso di controcultura, un modello di reazione in segno contrario alla crisi di Torino, capitale dell’industrializzazione e divenuta città senza identità con i suoi 50mila alloggi sfitti, con un primato di povertà, disoccupazione e inquinamento. Ma nei centri sociali cresce una realtà di sperimentazione musicale, cultura, incontro. Che provoca una reazione di diffidenza, rigetto e repressione, ma anche di curiosità, interesse e coinvolgimento. Con questa intervista a due esponenti di Askatasuna, si vuole cominciare a dare ascolto alle “voci altre”, quelle che la cultura dominante non riconosce o addirittura esclude, ma che meritano invece di essere ascoltate


L’intervista di FABIO BALOCCO con MARTINA LOSANO e VINCENZO PELLICANÒ

TORINO È DIVENTATA una città senza identità. “È diventata” perché era ben altro: era il motore dell’industrializzazione italiana. Ma finita l’industria ecco che si trova ad essere la città senza identità e con uno dei più alti numeri (in percentuale) di poveri, con 50.000 alloggi sfitti, con molti immigrati (in primis i marocchini) che tornano a casa per mancanza di lavoro. Questo senza contare la scarsa vivibilità visto che è una delle città più inquinate d’Europa. A questo quadro negativo si aggiunge l’intolleranza da parte delle istituzioni (politiche e giudiziarie) nei confronti di chi manifesta il dissenso, e il disagio. Abbiamo voluto sentire la voce di questa realtà, che spesso invece voce non riesce ad avere.

Prendiamo le mosse da una breve presentazione di Radio Blackout: quando nasce e con quali intenti. Radio Blackout nasce nel 1992 quando diverse soggettività torinesi e realtà di movimento decidono di dare vita a una radio libera in città, comprando la frequenza FM 105.250 che ancora oggi dà voce alle lotte sociali. Gli intenti che stanno all’origine della radio, e che la muovono ancora oggi, sono la volontà di dare spazio a un’informazione libera e indipendente, pensata e costruita dai soggetti che sono a loro volta protagonisti di ciò che si attiva nei territori.

L’idea è quella di contribuire a un dibattito in cui si possa costruire un punto di vista critico, non soltanto sui temi di attualità ma anche portando avanti controcultura in ambito musicale tramite una continua ricerca e scoperta. I principi alla base della radio sono l’antifascismo, l’anticapitalismo, l’antisessismo e l’antiautoritarismo. È uno spazio che non occupa soltanto l’etere ma è anche un luogo fisico dove vengono organizzati concerti, cene di autofinanziamento, iniziative culturali e politiche.

Gli scontri del 2019 a Torino tra polizia e Askatasuna

—  I centri sociali, che voi conoscete, quale ruolo svolgono a Torino?

«Nella storia recente i centri sociali hanno svolto un ruolo centrale nella possibilità di vivere la città, le relazioni sociali, gli spazi in maniera diversa. Con “diversa” si intende un vivere non mediato dal consumo e dal profitto, un vivere atto a trasformare le forme di dominazione sulle quali si organizza la società, un vivere che permetta di arricchire le proprie esistenze in maniera collettiva. Questo non può che andare di pari passo con il fatto di essere spazi che permettono la costruzione di lotte e di percorsi di cambiamento con l’obiettivo di stabilire un rapporto di forza con la controparte, solitamente rappresentata da una politica completamente alienata dalla realtà sociale.

«Oggi, a Torino per esempio, vediamo come nella fase di ascesa del Movimento 5 Stelle si sia consumato (probabilmente) l’ultimo sprazzo di fiducia nei confronti della rappresentanza politica sul livello delle amministrazioni locali, e a seguito del loro fallimento si sconta una distanza siderale tra cittadini e istituzioni politiche. I centri sociali a Torino svolgono anche un ruolo di ricomposizione sociale, di aggregazione e sono occasione per potersi attivare collettivamente. Sono luoghi in cui è possibile confrontarsi sulla base dei propri bisogni con l’obiettivo di un miglioramento trasversale delle proprie condizioni di vita».

Voi avete un po’ il polso della situazione del rapporto fra istituzioni e forze dell’ordine da un lato e centri sociali dall’altro. Ci sono anche stati almeno due sgomberi negli anni, il recente di Edera e quello più risalente dell’asilo di via Alessandria, e da tempo si parla di liberare anche la palazzina occupata dal centro sociale Askatasuna. Cosa potete dire al riguardo?

Organizzazione di un concerto all’Askatasuna

«Dato il contesto dentro il quale ci muoviamo in città, ossia una città sempre più pregna di contraddizioni, di ostilità e difficoltà di accesso a una vita soddisfacente, in particolare per quanto riguarda la fascia giovanile, le espressioni di dissenso e di volontà di trasformazione vengono criminalizzate immediatamente. Probabilmente, da un lato, la necessità delle amministrazioni è quella di marginalizzare spinte di insoddisfazione e,dall’altro, la questura torinese da sempre si distingue per una certa attenzione nei confronti dei movimenti sociali, di chi li anima e dei luoghi che li contraddistinguono, nell’ottica di un mantenimento dell’ordine pubblico che si avvicina sempre di più a situazioni che non hanno nulla di democratico. Per certi versi la vicinanza con la Val Susa, territorio che anima da decenni un movimento importante come quello No Tav, implica un trattamento quasi da laboratorio delle pratiche di repressione del dissenso e di gestione dell’ordine pubblico. Pensiamo alla militarizzazione dei Comuni della Val Susa o alla gestione di piazza in merito ai cortei studenteschi contro l’alternanza scuola-lavoro dello scorso inverno. 

«La gestione muscolare si è sommata a una persecuzione giudiziaria senza precedenti, dando luogo a una “punizione esemplare” per quei giovani che hanno manifestato per una scuola più sostenibile e che hanno dovuto scontare misure cautelari in carcere o ai domiciliari. C’è chi è stato messo agli arresti domiciliari per parecchi mesi con la sola accusa di aver parlato al megafono durante un’azione diretta a Confindustria. Dunque, gli sgomberi sono l’ultimo tassello di una strategia politica, giudiziaria e poliziesca di questo tipo. Per esempio, per quanto riguarda l’Asilo di via Alessandria è stata messo in campo lo stesso metodo che si sta tentando di utilizzare con l’Askatasuna, ossia avviare un’inchiesta giudiziaria con l’obiettivo di accusare di associazione sovversiva o associazione a delinquere per poi ottenere anche lo sgombero degli spazi fisici in cui i collettivi e le realtà si incontrano, si confrontano, danno vita a percorsi di lotta e di vita alternativi. È un altro modo per tagliare le gambe alla possibilità di costruzione di reti relazionali solidali, collettive e che si muovono insieme per un miglioramento della società. Anche lo sgombero dell’Edera squat rientra in questo ragionamento: uno spazio di socialità e di incontro situato in un quartiere, Vallette, completamente abbandonato dalle istituzioni che è stato chiuso con l’obiettivo di porre fine a un’esperienza sociale che andava nella direzione di costruire un vivere alternativo».

—  Quale il rapporto c’è fra il cittadino comune e i centri sociali?

«C’è una parte, anche piuttosto consistente, di Torino che ritiene l’esperienza variegata dei centri sociali come una ricchezza per la città. I centri sociali sono una fucina di socialità, sperimentazione musicale, dibattito e cultura. In questi luoghi sono nati e cresciuti alcuni dei gruppi musicali più noti di Torino, sono stati creati paradigmi culturali che pian piano sono diventati patrimonio comune. Ma questo è solo un aspetto, in molti territori i centri sociali, gli spazi occupati sono dei punti di riferimento perchè si oppongono alle storture di una città sempre più in crisi d’identità che non sa rispondere ai bisogni di chi la abita. La lotta per la casa, contro il carovita e lo sfruttamento, quella per i diritti di giovani, donne e migranti si intrecciano quotidianamente con il tessuto di questi spazi sociali. Stiamo parlando della metropoli più povera del Nord Italia, in piena crisi demografica. Naturalmente esiste anche una parte di città che cede alla retorica mainstream e delle destre che presenta i centri sociali come covi di sfaticati e violenti, ma in genere si trattano di persone che non hanno avuto contatti diretti con queste esperienze o che hanno una matrice ideologica ben precisa».

Ritenete che con il cambio di governo possa aumentare la repressione nei confronti delle proteste sociali?

«Non c’è dubbio che il rapporto delle attuali compagini di governo nei confronti delle proteste sociali è tutto votato ad un rafforzamento dell’ordine pubblico. Lo vediamo nei territori in cui governano e nella propaganda quotidiana contro i settori più deboli della società e contro le esperienze che provano a combattere le disuguaglianze. Ma ciò che ci preoccupa maggiormente è l’attacco ai diritti che è un tratto identitario dei partiti di destra contemporanei (sebbene oggi provino maldestramente a dissimularlo) e l’intensificazione dello sfruttamento, dell’impoverimento e della devastazione ambientale, che tutto sommato è in linea con i governi che l’hanno preceduto (si veda l’adesione della Meloni alla notoria agenda Draghi sul piano economico)».

Il centro sociale torinese Askatasuna

«Luoghi come Askatasuna e Edera sono la ricchezza di Torino, perché provano a produrre un tipo di socialità attiva e non commerciale in quartieri dove spesso non c’è quasi niente. E sono posti che danno sicurezza: presidi aperti, vivibili, attraversati dalle persone.» Sono parole di Zerocalcare, uno dei pochi che ragionano e si schierano a fare dei cosiddetti “antagonisti”. Gli uomini di cultura/gli intellettuali in generale non si esprimono sul tema… A Torino c’è un ampio schieramento di intellettuali e artisti che sta prendendo parola su questa deriva che vive la città, ma è vero che più in generale riscontriamo un po’ di pavidità. Il problema è duplice, da un lato abbiamo osservato una sempre maggiore fatica degli intellettuali a parlare a fasce ampie della società, una distanza oggettiva ed una tendenza a rinchiudersi nei propri “porti sicuri”, dall’altro esiste un meccanismo ormai consolidato che tende a spegnere le voci di dissenso, e il caso del dibattito sulla guerra in Ucraina è esemplificativo in questo senso. Chi esprime un punto di vista alternativo a quello mainstream tende ad essere isolato e a volte criminalizzato. Ma se ci si adegua a questo meccanismo sparisce il ruolo degli intellettuali, cioè quello della critica senza quartiere per un avanzamento complessivo della società. In momenti di crisi come questo si tratta di fare scelte scomode, di trovare il modo di ascoltare le voci di chi sta in basso e vive il dramma sociale di questi tempi, di schierarsi in parole semplici. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Nato a Savona, risiede in Val di Susa. Avvocato (attualmente in quiescenza), si è sempre battuto per difesa dell’ambiente e problematiche sociali. Ha scritto “Regole minime per sopravvivere” (ed. Pro Natura, 1991). Con altri autori “Piste o pèste” (ed. Pro Natura, 1992), “Disastro autostrada” (ed. Pro Natura, 1997), “Torino, oltre le apparenze” (Arianna Editrice, 2015), “Verde clandestino” (Edizioni Neos, 2017), “Loro e noi” (Edizioni Neos, 2018). Come unico autore “Poveri. Voci dell’indigenza. L’esempio di Torino” (Edizioni Neos, 2017), “Lontano fa Farinetti” (Edizioni Il Babi, 2019), “Per gioco. Voci e numeri del gioco d’azzardo” (Edizioni Neos, 2019), “Belle persone. Storie di passioni e di ideali” (Edizioni La Cevitou, 2020), "Un'Italia che scompare. Perché Ormea è un caso singolare" (Edizioni Il Babi, 2022). Ha coordinato “Il mare privato” (Edizioni Altreconomia, 2019). Collabora dal 2011 in qualità di blogger in campo ambientale e sociale con Il Fatto Quotidiano, Altreconomia, Natura & Società e Volere la Luna.