Ci sono delle responsabilità politiche precise nel massacro del territorio che colpisce i boschi, dove il “taglio a ceduo” che rende i grandi alberi solo dei moncherini, diventa un lasciapassare per frane, erosione del terreno, dissesto. Il nostro territorio è trattato come merce, e leggi recenti invece di imporre politiche di tutela hanno al contrario smantellato le difese esistenti, a cominciare dal Corpo forestale. Sciolto il primo gennaio di sei anni fa, è stato accorpato ai Carabinieri; inseguendo politiche di risparmio amministrativo più apparenti che reali, ha visto dilapidare un patrimonio di competenze ed esperienza pluridecennali. L’approvazione del Testo unico forestale (avviato dal governo Renzi e poi portato a conclusione dal governo Gentiloni, ad opera della ministra Marianna Madia) prevede il taglio dei boschi come obbligo, che addirittura si può imporre anche ai privati. Un obbligo sciagurato, che non era mai esistito in precedenza
L’articolo di FRANCESCO MEZZATESTA
IL TERRITORIO NATURALE ITALIANO? Trattato come merce. Boschi, fiumi, zone umide, coste marine, pendici collinari e montane non sono considerati ecosistemi e habitat naturali la cui funzione è mantenere in equilibrio il nostro territorio ma come un prodotto di supermercato da sfruttare “usa e getta”. Il fatto è che mancando in Italia una cultura della natura molti non si accorgono nemmeno di quello che accade. E quelli che se ne accorgono spesso fingono di non vedere.
Ogni autunno all’intensificarsi delle piogge è tutto un susseguirsi di avvenimenti franosi e esondazioni. Anziché correre ai ripari basandosi su consulenze geologiche indipendenti i legislatori italiani hanno peggiorato la situazione con norme di legge anti-tutela ambientale. Ci sono nomi e cognomi dei responsabili. Dal 1° gennaio 2017 il governo Renzi ha tagliato le ali allo storico Corpo forestale dello Stato passandolo all’Arma dei carabinieri. Con tutto il rispetto per la Benemerita, il Corpo forestale nella sua precedente autonomia era più libero e dinamico perché non era inquadrato in un organo militare. Per forza di cose sono diminuiti i controlli sui tagli boschivi e sull’uso del suolo soprattutto nelle zone montane più difficili da raggiungere a piedi. E mentre si fanno danni ecco sui media il leitmotiv degli imprenditori del legname: “I tagli fanno bene al bosco”. Secondo questa propaganda di boschi ce ne sarebbero troppi e per dimostrare questa tesi viene calcolata addirittura anche la semplice superficie arbustiva per cui si arriva all’assurdo che la Sardegna sarebbe teoricamente la zona più boschiva d’Italia! Depotenziato il più importante corpo di vigilanza e intervento di tutela ambientale si è passati alla seconda fase di quello che sembra un vero e proprio progetto di depotenziamento generale: l’approvazione del Tuf (Testo unico forestale). Un testo di legge che inizia con enunciati condivisibili ma che poi nell’articolato individua azioni contro la conservazione e il miglioramento del bosco. In questa legge, iniziata da Renzi e portata a conclusione dal governo Gentiloni su iniziativa della ministra Marianna Madia, si prevede l’obbligo di tagliare. Un obbligo che non era mai esistito in precedenza. Addirittura, se nel Piano forestale è previsto il taglio anche di un bosco privato, il proprietario non si può opporre.

Quello che il Tuf incentiva e che sta distruggendo i boschi maturi che proteggono i versanti appenninici è il cosiddetto “taglio a ceduo” che riduce i grandi alberi a moncherini distanziati tra loro dove l’acqua, non più trattenuta dal reticolo di intrecci legnosi vicini tra loro, si infila tra gli alberelli formando veri e propri ruscelli che erodono il terreno causando dissesto idrogeologico e frane. Il taglio a ceduo tradizionale era meno impattante perché operato da ditte locali che conoscevano il territorio. E veniva effettuato su piccole superfici mentre attualmente le ditte incaricate provengono da fuori zona (nomadismo del taglio boschivo) e intervengono non conoscendo il territorio, utilizzando enormi macchinari su superfici sempre maggiori tanto che adesso si può tagliare fino a 10 ettari senza che sia necessaria una fase istruttoria prima del taglio. In pratica attualmente le ditte boschive, stante i minori controlli dell’ex Corpo forestale sono libere di fare quello che vogliono. Dopo il taglio ceduo in un bosco è come se fosse passato un incendio o una frana. L’ecosistema forestale viene azzerato e deve ricominciare a ricostruirsi per almeno 50-60 anni. Dice Alessandro Bottacci per molti anni a capo del Servizio Biodiversità del Corpo Forestale dello Stato: «Con il taglio ceduo attuale, viene azzerato il capitale produttivo del bosco con i suoi servizi ecosistemici come ad esempio la tutela dell’acqua, l’incentivo alla fertilità del terreno e il freno al consumo del suolo». In sostanza il Tuf, nel delegare alle Regioni e poi ai Comuni e quindi alle ditte boschive esterne, svaluta il bosco come ecosistema considerandolo come pura fonte di legname, massimizzando il profitto privato e scaricando la spesa e i danni sul pubblico.
Con le attuali norme, il bosco viene considerato alla stregua di una miniera di legno e sembra non interessare una revisione del quadro normativo dopo quello che è successo a Ischia o nelle Marche. E poi ci sono fiumi e torrenti maltrattati. Ad ogni puntuale esondazione i servizi giornalistici televisivi si limitano a elencare i danni a cose e persone magari intervistando la signora che ha avuto la cantina allagata, o chi dà la responsabilità alla mancata pulizia del fiume. Raramente viene fatta una ripresa dall’alto che possa mostrare il corso d’acqua nel suo percorso sia a monte che, soprattutto, in prossimità dei centri urbani e ben raramente viene mostrata con immagini la presenza di edifici e manufatti nello spazio di naturale espansione delle acque. Nel qual caso si capirebbe come il corso d’acqua sia stato ristretto e canalizzato per poterne occupare gli spazi limitrofi. Per anni fiumi e torrenti italiani sono stati depredati degli spazi laterali golenali dove in caso di piena l’acqua in eccesso può espandersi e rallentare l’impatto dirompente che si verifica quando invece il fiume viene canalizzato. In questi casi infatti, come dimostrato ovunque da cartografie e foto aeree che testimoniano la riduzione dell’alveo e delle golene allo scopo di acquisire terreni su cui localizzare impianti o costruire edifici, la canalizzazione provoca disastri annunciati. Se il fiume diventa canale aumenta la velocità di scorrimento delle acque e la bomba idrica, oltre a ridurre il rifornimento delle falde, corre all’impazzata verso valle impattando contro possibili “ostacoli” come ponti, abbattendo e esondando.

Nel passato era tutta una rincorsa ad accaparrarsi gratuitamente pezzi di fiume. Il sistema era semplice. Il Genio civile, spesso trascurando gli effetti delle escavazioni di ghiaia che deviavano il corso d’acqua, dichiarava che su una sponda l’alveo era “abbandonato” e con una firma l’Intendenza di Finanza autorizzava che quei terreni laterali divenissero proprietà di chi abitava di fronte al fiume: i cosiddetti “frontisti”. Stessa cosa avveniva dal lato opposto dove parte del corso d’acqua veniva dichiarato abbandonato quindi dato in proprietà a chi abitava da quella parte del fiume. Così si canalizzavano i corsi fluviali e i privati venivano in possesso di parti di golena fluviale fino allora di proprietà pubblica demaniale. Questo fino alla legge del senatore Achille Cutrera del 5 gennaio 1994. Sollecitato dal mondo ambientalista di Parma, il parlamentare mise un freno alla sdemanializzazione dei fiumi. Ma i buoi erano già scappati dalla stalla e molti corsi d’acqua erano stati rettilineizzati. Ora si corre ai ripari costruendo casse di espansione alle porte delle città per frenare l’onda di piena. Ancora scavi che mettono a nudo la falda idrica ma che sono dettati dall’emergenza. Con i fondi del Pnrr sarebbe stato utile mettere in piedi un grande piano di restauro ambientale per ridare a tutti i principali corsi fluviali italiani lo spazio che è stato loro sottratto negli anni, recuperando le aree di espansione delle acque laterali. Questione di spazio, quindi, non di ingannevoli teorie di arginature da innalzare progressivamente accanto ad un fiume divenuto canale o depistanti opere di “pulizia”. Anche con l’aiuto dei fondi europei andrebbe ricreato un ampio demanio pubblico fluviale irresponsabilmente privatizzato, recuperando la naturalità dell’assetto golenale e costruendo sì argini ma non certo attorno al corso d’acqua ristretto e canalizzato, bensì lontano dal centro dell’alveo e magari, come sul Po, in doppia arginatura. © RIPRODUZIONE RISERVATA