Come trovarsi impreparati di fronte all’emergenza idrica, dopo averne solo parlato a ripetizione. Il Commissario straordinario è una novità paradossale: per come è stato studiato non è una figura che sostituisce, ma una figura in più. Ci sono trentamila enti per l’acqua, a vario titolo, e quasi duemila e quattrocento gestori. La radiografia dell’inefficienza in questo ambito vitale rivela un Paese che continua ad avere condizioni climatiche più favorevoli di tanti altri Stati, ma disperde il suo “oro blu” con condutture obsolete, dighe e invasi non governati, pianificazione assente, consumo del suolo frenetico

L’analisi di FABIO MORABITO
L’IMPATTO È BRUTALE sugli ecosistemi, il Paese si sta “tropicalizzando”, le varie proiezioni degli Istituti di ricerca differiscono di qualche punto percentuale, ma concordano nella sostanza di un’emergenza già in atto: più di un quarto del territorio nazionale rischia di diventare un deserto, mentre contemporaneamente fenomeni climatici estremi – come l’inondazione in Emilia-Romagna ancora in questi giorni e nelle ultime ore – devastano il territorio. È stato subito dopo quest’emergenza che il governo ha annunciato a chi affidare l’incarico di Commissario straordinario: è stato scelto Nicola Dell’Acqua (nomen omen) direttore di Veneto Agricoltura e presidente di Anarsia, l’Associazione nazionale delle Agenzie regionali per lo sviluppo e l’innovazione agronomiche forestali. A Dell’Acqua era già stato affidato dal presidente del Veneto Luca Zaia il coordinamento delle attività regionali per contrastare la siccità.
Il Commissario straordinario è una novità paradossale, perché non toglie spazio alle altre figure accentrando poteri, decisioni, responsabilità, ma si somma ai ruoli già presenti. Il decreto legge approvato il 6 aprile scorso dal governo ha infatti seguito la logica del coordinatore tra i coordinatori. Restano operativi tutti gli incarichi in essere, e cioè 12 commissari per l’emergenza idrica (di cui otto per altrettante Regioni per cui era stato dichiarato lo stato d’emergenza). Poi ci sono le sette autorità di bacino che fanno capo ad altrettanti distretti. Il servizio idrico integrato (sigla: SII) che riguarda i servizi pubblici che vanno dall’acquedotto alla fognatura e alla depurazione, è invece affidato a 2.391 gestori, che applicano una sessantina di tariffe diverse tra loro. In tutto, è stato calcolato in circa trentamila il numero degli enti che governano l’acqua in Italia. Una frammentazione da primato.
Una fotografia della situazione è nel rapporto “Water economy in Italy” (Proger/Fondazione Earth and Water Agenda) presentato al Senato il 21 marzo scorso. Che giunge ad alcune conclusioni drastiche: l’Italia è più piovosa della Germania e dei Paesi Bassi, eppure è esposta a rischio siccità a causa della mancanza di infrastrutture. Lo stress idrico impatta su agricoltura, turismo e industria con danni che sono stati stimati nell’ordine di 20 miliardi di euro per il periodo tra il 2000 e il 2022. Secondo questo report, la piovosità in Italia sarebbe ancora buona (la quinta in Europa come precipitazioni medie, e Roma – a sorpresa – è più piovosa di Londra) ma ad essere carenti – secondo i ricercatori – sono le infrastrutture idriche per gestire e utilizzare l’acqua quando e dove serve.
Su 532 grandi dighe presenti nel territorio nazionale (e gestite da 131 concessionari), 309 producono energia idroelettrica. Sempre sul totale di 532, sono un centinaio quelle che non funzionano (addirittura perché non sono state messe a norma o non sono state collaudate). Secondo il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida già la sistemazione delle dighe sarebbe sufficiente a recuperare l’equivalente di un terzo dell’approvvigionamento attuale. Gli invasi per trattenere (e poi distribuire) l’acqua piovana da utilizzare per le coltivazioni sono insufficienti, pieni di ghiaia e fango, e malridotti. L’acqua piovana trattenuta è stimata all’11%. In Spagna circa il 50%. Siamo fermi alle capacità di invaso di cinquant’anni fa. Ma potenziare il sistema va fatto senza costruire bacini artificiali che consumano suolo. Serve quell’attenzione all’ambiente che, proprio perché assente in passato, ci ha portato agli attuali numeri da disfatta.
Sempre l’acqua incide pesantemente sul nostro bilancio: i rischi naturali più onerosi sono le alluvioni e, a seguire, come in un gioco di contrari, la siccità. Si può pensare, correttamente, che l’Italia paga condizioni naturali di rischio idrogeologico, e condizioni provocate dall’uomo, come l’esagerato consumo del suolo. Ma questa esposizione al danno è in linea con una vulnerabilità globale: secondo l’Oms (l’Organizzazione mondiale della Sanità) l’80 per cento dei disastri naturali è collegato all’acqua. Sistemazione di dighe e invasi saranno quindi tra gli impegni del commissario straordinario il cui mandato – rinnovabile – non andrà, a differenza di quanto era stato previsto dal piano-Draghi, oltre la fine dell’anno (però resta l’opzione al governo di rinnovare il mandato). Il super-commissario medierà, tra i tanti enti titolati, sulle scelte controverse: a cominciare dai ministeri interessati, e dalle Regioni. Gestirà risorse, molte.

Poi, sempre a carico del commissario, sarà anche la politica di desalinizzazione, e cioè il sistema per rendere potabile l’acqua di mare. L’isola di Ventotene, nel 2015, si dotò di un impianto che – nato tra le polemiche – ora si intende potenziare. Taranto conquisterà il primato di maggior impianto in Italia, ma solo nel 2026, quando si pensa che potrebbe essere operativo un sistema di desalinizzazione in grado di produrre mille litri di acqua potabile al secondo: ma l’acqua non è quella del mare. È del fiume – a bassa salinità- che avrebbe dato il nome alla città, il Tara. C’è enfasi su questa impresa (finanziata anche con fondi del Pnrr), ma non è ancora partita la gara d’appalto, e bisognerà comunque misurarne l’impatto ambientale. Eppure proprio nei pressi di Taranto c’è lo scandalo della diga del Pappadai. Costruita, mai utilizzata, ora abbandonata.
Solo un millesimo dell’acqua potabile in Italia proviene dai dissalatori (Israele, per necessità geografiche, è all’80%). Ce ne sono 16mila nel mondo, una buona metà nel Golfo Persico, nell’Unione europea è la Spagna ad essere all’avanguardia, con l’impianto già operativo da dieci anni di Barcellona, che copre le necessità di acqua potabile di un milione di abitanti. Ma quello dei dissalatori è un sistema che ancora costa (cento milioni l’impianto di Taranto), e soprattutto costa in energia. E quindi è una soluzione che apre a un altro problema. Uso dell’acqua e consumo energetico sono generalmente collegati. E pensare di risolvere il problema dell’irrigazione dei campi con acqua a cui è stato tolto il sale (agli attuali costi, che arrivano a superare l’euro al metro cubo) significa non capire quanto sia antieconomico. E infatti, a proposito di legame tra consumo d’acqua e di energia, pesa nella situazione attuale l’impiego delle centrali idroelettriche: per farle funzionare, si lascia boccheggiare i fiumi. Nel 2022 il calo della produzione idroelettrica è stato del 37%.
Le decisioni che vanno prese per necessità trovano l’obiezione degli interessi particolari, come la protesta degli agriturismi in provincia di Siena contro il divieto imposto nei comuni serviti dall’Acquedotto del Fiora di utilizzare l’acqua potabile per il ricambio delle piscine da giugno a settembre. In Francia, in Costa Azzurra, dopo 35 giorni senza l’ombra di un temporale, a piovere sono i divieti. È perfino vietato lavare le macchine (privatamente: gli autolavaggi saranno funzionanti). Anche in Italia ci si muove in ordine sparso. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha emanato un’ordinanza anti-sprechi già a metà marzo: si va dalla campagna di sensibilizzazione dei cittadini, al piano d’emergenza dell’acqua potabile, alle misure di contenimento dei consumi. Parola d’ordine: “Non sprecare”. L’agenzia regionale Arpav aveva già diffuso i dati di febbraio: sono scesi sul Veneto 3 millimetri di pioggia, la media degli ultimi anni (1994-2022) era stata di 60.

Le decisioni impopolari possono quindi essere necessarie. E non sarà popolare un eventuale aumento delle tariffe dell’acqua, che in Italia sono storicamente inferiori alla media europea, e che sono molto diverse anche nel territorio: Milano fa pagare “l’oro blu” la metà di Roma e un quarto di Firenze. Ci sono – all’origine di queste situazioni – anche scelte fatte dal passato. Si riconosce ancora a Gabriele Albertini, sindaco del centrodestra a Milano, il merito – era il 2005- degli impianti di depurazione delle acque della città a Peschiera Borromeo. Ogni secondo mille litri di acqua delle fogne sono a disposizione, depurate. Quello della depurazione è uno dei ritardi storici del sistema idrico in Italia: servono investimenti importanti nel sistema fognario, sul riuso delle acque reflue e per “ricaricare” le falde idriche. Ma per la manutenzione delle reti idriche – che hanno per lo più età vetuste – serve l’impopolarità di alzare le tariffe. La spesa di oggi è l’economicità di domani.
Questo governo ha a disposizione già quasi otto miliardi di euro (7,8), tra fondi nazionali ed europei. Lo stesso ministro per la Protezione civile e il mare, Nello Musumeci, ha ammesso la mancanza di coordinamento tra i dicasteri, e che questi soldi andavano già investiti prima d’ora. Meglio tardi che mai, naturalmente, e soprattutto – timore che purtroppo ha senso – che si spenda bene. Ci penserà il commissario straordinario. Se dovesse prevalere la buona volontà – mentre la percezione che si ha è quella di interessi conflittuali tra alleati di governo – sarebbe già un buon punto d’avvio. Il panorama degli interventi da fare è anche abbastanza chiaro e gli studi di settore non mancano. Bisognerebbe evitare scelte, come potrebbe avvenire sugli invasi, che poi siano dannose per le possibili conseguenze come impatto ambientale. No, non sarà facile come bere un bicchier d’acqua. — (2. fine; la prima parte dell’articolo è stata pubblicata lunedì 15 maggio 2023) © RIPRODUZIONE RISERVATA