
Nel corso degli ultimi anni, la prevenzione è stata posta in secondo piano nell’azione del governo regionale. E gli uffici non hanno più una adeguata dotazione di personale tecnico in grado di gestire il territorio, di fare le progettazioni, di seguire e dirigere i cantieri che ne derivano e di fare attività di sorveglianza. Si è rinunciato al ricambio generazionale nella compagine tecnica, perdendo una dopo l’altra competenze professionali di alto profilo senza aver assunto nel frattempo giovani ingegneri, geologi, geometri, tecnici ambientali e forestali. Figure cruciali da affiancare al personale in procinto di lasciare consentendo loro di acquisire esperienza. Perché si fa tutto questo? Per spostare all’esterno la macchina progettuale delle opere?
L’analisi di SAURO TURRONI
QUANTO È ACCADUTO dai primi di maggio nelle due devastanti alluvioni tra Romagna e Bologna mette in evidenza le riforme sbagliate che hanno indebolito se non stravolto le strutture tecniche, gli organismi che devono occuparsi della tutela e della manutenzione dei corsi d’acqua. Essi, e questo va riconosciuto — con grande sacrificio personale e un impegno tale da supplire in massima parte agli errori dei “riformatori” — hanno fatto fronte a eventi di dimensione epocale che avrebbero potuto avere conseguenze ancora peggiori.
Nello stesso tempo la gestione unitaria dei bacini è stata frammentata, la competenza di un corso d’acqua è stata affidata alle province per il tratto che le attraversa, in modo tale da dividere un fiume lungo i confini amministrativi. Idee che sembrano essere un omaggio al localismo leghista, più che ai principi ispirati a criteri scientifici acquisiti fin dalla legge sulla difesa del suolo, la n. 153 del 1989. Ma per non farsi mancare nulla i solerti riformatori non si sono fermati qui e hanno affidato la gestione nelle concessioni per l’uso dell’acqua, elemento principale e costitutivo del fiume, all’Arpa. E come se non bastasse una recente delibera regionale ha soppresso la figura del sorvegliante idraulico: una decisione che elimina una figura chiave nella gestione dei corsi d’acqua nel verificare e gestire le opere idrauliche, rilevare criticità, forse con l’idea illusoria di poter sostituire una competenza specifica con ogni sorta di tecnico genericamente definibile come ambientale.
Non solo la prevenzione è stata posta in secondo piano, gli uffici non hanno più una adeguata dotazione di personale tecnico in grado di gestire il territorio, di fare le progettazioni, di seguire e dirigere i cantieri che ne derivano e di fare attività di sorveglianza. Il ricambio generazionale nella compagine tecnica non è stato posto in atto, così che si stanno perdendo una dopo l’altra competenze professionali di alto profilo senza aver assunto nel frattempo giovani ingegneri, geologi, geometri, tecnici ambientali e forestali affiancandoli al personale che sta per lasciare consentendo loro di acquisire esperienza. È necessario che si comprenda che si tratta di un lavoro che fa della conoscenza capillare del territorio il suo principale punto di forza.
Sarebbe sbagliato se dietro tutto questo si celasse la volontà di far realizzare progetti all’esterno, come se fosse facile trovare al di fuori degli uffici competenze tali da garantire efficacia nelle opere progettate il cui requisito principale non può essere solo la formale esecuzione, amministrativamente corretta, di opere che non si esauriscono in un singolo progetto. Tutto questo non può che fare parte di una strategia di carattere generale che richiede modifiche e adattamenti che gli stessi fiumi richiedono continuamente. Anche l’idea di utilizzare il volontariato certamente prezioso si rivela sbagliata se fa perdere l’operazione di monitoraggio e vigilanza. Il volontariato è una risorsa indispensabile nei momenti di criticità ma non può essere sostitutivo delle competenze tecniche.
C’è bisogno di competenze diffuse in strutture legate al territorio. Con specialisti che lo lo conoscano e siano capaci di agire e gestire. È stato questo uno dei principali errori della centralizzazione alla base della struttura di missione varata dal governo Renzi che pretendeva, con metodologie standard, di governare territori e questioni diverse non riconducibili ad un unico modello gestito da Palazzo Chigi. E occorre rimettere in campo una rigorosa pianificazione. Quello che resta è diventato un paravento facilmente aggirabile. Per fare un esempio, in un’area posta in un tratto urbano della via Emilia a Forlì, in un’area classificata esondabile, si è allegramente edificato un supermercato richiedendo solo di alzare un po’ il piano di campagna per superare le limitazioni d’uso di quel territorio. Inutile dire che la natura non accetta questi escamotage. E puntualmente è ora sott’acqua.
Il presidente Bonaccini afferma con la solita baldanza che ricostruiremo tutto come prima, come se fosse possibile continuare sulla stessa strada sbagliata, come se non fosse responsabilità delle politiche fin qui adottate tutto ciò che è successo. Non si può continuare come prima. I cambiamenti climatici impongono una revisione radicale delle politiche del territorio, con l’abbandono della sempiterna idea di sviluppo edilizio e infrastrutturale senza fine, sostituendola con la più rigorosa tutela e conservazione di tutte le aree inedificate del territorio. E, soprattutto, con una ineludibile azione volta a restituire spazio ai fiumi, delocalizzando insediamenti, restituendo naturalità, rafforzando le strutture tecniche, ricomponendo le competenze a scala di bacino, facendo discendere ogni azione di trasformazione da una pianificazione tanto accurata quanto inderogabile. — (2. Fine; la prima parte è stata pubblicata mercoledì 24 maggio) © RIPRODUZIONE RISERVATA