Con i soli giocatori di Roma città e provincia, negli anni Sessanta-Settanta, si sarebbe potuta allestire una squadra di alta classifica. Alcuni nomi: Di Bartolomei, Giordano, Bruno Conti, Manfredonia, Rocca, D’Amico; per non parlare delle “infornate” successive, con Giannini, Desideri, Di Canio, fino a Totti, Nesta e De Rossi. Le trasferte erano spesso a rischio, il fattore campo un elemento quasi sempre decisivo. E i tecnici? Alcuni erano maestri dai nobili trascorsi, altri coloriti mestieranti in perenne lotta con la lingua italiana, come quello che nei momenti topici esortava i suoi giocatori: «tirate fuori i contributi!»


L’analisi di MARCO FILACCHIONE 

¶¶¶ Nei vicoli del rione, la presenza della squadra si sente e si vede. A via della Lungaretta, a due passi dalla Basilica di Santa Maria in Trastevere, c’è addirittura uno “store” dedicato, con maglie e merchandising ufficiale, alla maniera dei grandi club. Bella storia, quella del Trastevere Calcio, che sotto la guida di Sergio Pirozzi, ex sindaco di Amatrice tornato ad allenare, sta galoppando verso la Serie C, scavando un solco sempre più ampio con le inseguitrici. Niente di epocale, per chi osservi la cosa fuori dal Raccordo Anulare. Ma per i vecchi suiveurs capitolini, la vicenda del Trastevere, società fra le più ricche di tradizione, è una sorta di “stargate” che riporta alla luce l’età dell’oro del calcio romano.

Anni Sessanta-Settanta. Roma e Lazio frequentavano solo episodicamente i vertici del calcio nazionale, ma avevano una fortuna che altre piazze potevano solo sognare: erano continuamente alimentate da un movimento dilettantistico e giovanile tra i più floridi d’Europa. Con i soli giocatori di Roma città e provincia, a quei tempi, si sarebbe potuta allestire una squadra di alta classifica. Basti pensare a Di Bartolomei e Giordano, Bruno Conti e Manfredonia, Rocca e D’Amico; per non parlare delle “infornate” successive, con i vari Giannini, Desideri, Di Canio, fino ad arrivare a Totti, Nesta e De Rossi.

Un patrimonio garantito da società gioiello come Almas, Romulea, Lodigiani, Omi e lo stesso Trastevere (dove si tesserò a nove anni Francesco Totti). Ma i nomi di cui sopra erano soltanto la cima eletta di una piramide, la cui base brulicava di centinaia di campioni mancati, talenti troppo naif e irregolari per varcare le soglie del professionismo. Alcuni diventavano autentiche leggende metropolitane, come nel caso di Nando Pane, stella di Primavalle. Centrocampista, ma più precisamente uomo ovunque, aveva tecnica, dinamismo, coraggio, carattere. Si divise tra Lodigiani, Tanas Primavalle e Casalotti, ma il suo vero regno erano i tornei estivi, che negli anni Settanta a Roma erano veri e propri eventi popolari, a cui non di rado partecipavano anche professionisti in libera uscita. 

Nando, detto “Er Grinta”, era capace di giocare due-tre partite a sera, dalle otto a mezzanotte, anche perché gli “sponsor” (di solito proprietari di bar, ristoranti o altre attività commerciali) per averlo erano disposti a sborsare cachet spericolati. Calcio a undici, naturalmente, ma quando, nei primi anni Ottanta, prese piede il calcetto, Pane fu cooptato nella Roma Rcb, più volte scudettata. E lì, sul campo ridotto, vinceva davvero le partite da solo. Scomparso tre anni fa, nel giugno 2018 gli dedicarono un memorial a cui parteciparono anche ex di Roma e Lazio.

Più o meno coetaneo era Claudio Filippelli, che nel 1971-72 era stato nell’organico della Lazio Primavera, come alter ego di Vincenzo D’Amico, prima di incantare le platee dei campionati minori. Aveva intuizioni sublimi, ma una irriducibile avversione per l’intera classe arbitrale. Così, alla sua squadra capitava spesso di giocare in dieci dopo un quarto d’ora. Il tempo di un paio di decisioni contrarie e partiva l’insulto all’arbitro, sempre lo stesso: «A’ somaro!», con inevitabile cartellino rosso. 

Per alcuni di questi geniali poeti di borgata, il calcio professionistico non era in cima ai desideri. Tanti, a Roma Ovest, conoscono la parabola di Amleto Santolamazza, classe 1960: dalla Petriana, la squadra dell’Oratorio San Pietro, lo mandarono alla Sampdoria, e lui in uno dei primi allenamenti pensò bene di fare un tunnel a Bedin, ex mediano dell’Inter euromondiale. Poi, con una scusa, si fece accompagnare alla stazione, infilandosi alla chetichella nel primo treno per Roma. Stessa storia, più o meno, con il Brescia, che lo prese qualche tempo dopo. Gli pesava terribilmente il fatto che gli amici di sempre non potessero più vederlo giocare. E che allenatori troppo rigidi non gli consentissero di fare i suoi soliti “numeri”. Così, tornò alla Petriana, dove gli piaceva giocare da solo contro una decina di ragazzini della scuola calcio. E se perdeva, Coca Cola per tutti. Arrivò fino in Serie C, dove qualche numero glielo lasciavano fare, ma durò poco: le squadre di quartiere erano il suo vero universo.

Pieno di talento e fantasia, ma anche crudo fino alla violenza: il calcio minore romano era una derivazione credibile delle antiche faide di quartiere, solo che al posto delle coltellate, volavano alzo zero entrate da far paura. Le trasferte erano spesso a rischio, il fattore campo un elemento quasi sempre decisivo. La rigida marcatura a uomo cominciava non di rado negli spogliatoi, dove arrivavano le prime minacce dei padroni di casa, e dove il «5» (lo stopper), prendeva di mira il «9» (il centravanti), a scopo intimidatorio.

E i tecnici? Alcuni erano maestri dai nobili trascorsi, ascoltati come oracoli, altri coloriti mestieranti in perenne lotta con la lingua italiana, come quello che nei momenti topici esortava i suoi giocatori: «tirate fuori i contributi!». Non mancavano gli strateghi e i grandi motivatori. Come Ermanno Fasciani, oggi riconosciuto guru del dilettantismo romano. Da allenatore del Campo de’ Fiori, una trentina di anni fa, si trovò ad affrontare uno spareggio-promozione con il Formello. Sede designata, Maccarese, in pieno giugno. Più che a organizzare la tattica, pensò a non far bollire i suoi sotto il sole. Convocò quindi la squadra nella pineta di Fregene, la fece cambiare in loco e la tenne al fresco fino a pochi minuti dal fischio d’inizio, fra la costernazione dei suoi stessi dirigenti. Vinse la partita con un gol all’ultimo minuto dei tempi supplementari, quando gli avversari, arrivati al campo in grande anticipo, erano da quattro ore sotto la canicola. Altro che Coverciano, qui siamo direttamente a von Clausewitz. ♦ © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Foto: sotto il titolo, simbolo e store del Tastevere Calcio; in alto, Sergio Pirozzi, torna ad allenare il Trastevere Calcio in lotta per la Serie C; al centro, il primo tesserino di Francesco Totti per il Tastevere e con la prima maglia della Roma; in basso, la squadra della Petriana del 1978

Marco Filacchione, romano, ha esplorato ogni periodicità del giornalismo scritto, lavorando per mensili, settimanali, quotidiani e agenzie di stampa. Ha cominciato negli anni Ottanta con “Il Messaggero”, poi ha seguito da inviato per anni Giro d’Italia, Tour de France e classiche del Nord per il mensile “Bicisport”. In seguito si è occupato di calcio con il mensile “Newsport” e ha fatto parte della redazione del “Corriere dello Sport”, di cui è tutt'ora collaboratore. È autore di una decina di volumi di carattere sportivo.