Una “tabella di marcia”, e in questa forma è una novità. Si vuole mettere in sicurezza il 30% delle terre emerse, il 30% dei mari, entro otto anni (il 2030). Si sono messi d’accordo 193 Paesi del mondo (ma altri tre non hanno approvato il documento finale della Cop15, che si è conclusa lunedì notte a Montréal in Canada). Il tema è quello della biodiversità, minacciata dall’alterazione del clima, dall’inquinamento, e più genericamente dalle attività dell’uomo. Si prevedono finanziamenti ai Paesi in via sviluppo nella tutela (210 miliardi di dollari in totale, da qui fino al 2030). Ed è stato deciso di “colpire” economicamente le attività che minacciano la biodiversità. Un appello di quasi tremila scienziati di tutto il mondo dà una speranza (ci si può riuscire) e un ultimatum (solo se si agisce subito, e con decisione)
L’articolo di FABIO MORABITO
NEL CUORE DELLA notte finalmente un po’ di luce. Si è conclusa alle 3.33 del 19 dicembre la Cop15 a Montreal, in Canada. Con un documento salutato dal Segretario generale dell’Onu, il portoghese Antonío Guterres, con parole di effetto (o di retorica, se si è pessimisti): «È un patto di pace con la natura». E dopo un appello di oltre 2.700 scienziati di tutto il mondo che chiedono ai governi di fermare la distruzione della natura. In uno scenario drammatico, descritto alla vigilia del summit come preludio alla sesta estinzione di massa nella storia del Pianeta. Le stime sono catastrofiche, di una scomparsa a catena delle specie animali (i predatori che muoiono per l’estinzione delle prede) e specie vegetali. Si è arrivati a quantificare in un milione le diverse specie minacciate di scomparire. Tutte minacciate da un solo animale: l’uomo.
La Cop15 è la Conferenza mondiale sulle biodiversità indetta dalle Nazioni Unite. L’intesa raggiunta ha tutte le fragilità di un accordo senza vincoli. È un desiderio che si fa documento. Ma pone degli obbiettivi, e riconosce un’emergenza. I rappresentanti di 193 Paesi dopo 12 giorni di riunioni, che sono seguite a quattro anni di negoziati, hanno sottoscritto una “tabella di marcia”, nella quale il “numero chiave” è il 30. Entro il 2030 ci si impegna ad arrivare a proteggere il 30% delle terre emerse, il 30% dei mari, a ripristinare il 30% alle aree degradate dalle attività umane, e ad aiutare i Paesi in via di sviluppo nella tutela della biodiversità con un fondo di 30 miliardi di dollari all’anno dai 2026 al 2030 (dal 2023 al 2025 saranno venti).
Un fondo che però già esiste, riempito per ora di promesse e poi — si spera — di miliardi. Lo finanzieranno i Paesi più ricchi. Si tratta del Global environment facility (Gef), il Fondo mondiale per l’ambiente, organismo finanziario internazionale, già utilizzato anche per le aree protette, e che è stato costituito da più di trent’anni. Ma i Paesi che dovranno beneficiare di queste risorse avrebbero preferito un fondo specifico, dedicato esplicitamente alle misure di protezione della biodiversità nelle realtà in via di sviluppo. C’è stata una protesta di alcuni Paesi africani sulla procedura con cui si è arrivati al testo finale, che avrebbe dovuto essere votato per singole parti, e invece è approdato a un voto complessivo. La polemica è stata con la Presidenza (cinese, e non canadese, perché il summit avrebbe dovuto tenersi in Cina, ed è stato delocalizzato per il Covid), e si è conclusa con il voto contrario di tre Stati: Congo, Camerun, Uganda.
L’accordo finale è un piano che prevede una serie di 23 “target” e 4 bersagli “goal”, con l’obbiettivo complessivo di ridurre sensibilmente la perdita della biodiversità nel mondo. Un tema che interessa molto l’Italia, che è il Paese europeo con maggiore biodiversità (intesa come numero di specie ed ecosistemi) ma che naturalmente è da considerare tra i Paesi finanziatori. Nel mondo il primato della biodiversità riconosciuto — da una classifica stilata da un’Agenzia di “monitoraggio” delle Nazioni Unite — è del Brasile, davanti all’Australia.
I “bersagli grossi” appaiono velleitari. In uno di questi si stabilisce che serviranno 700 miliardi di dollari all’anno (altro che trenta) per implementare le misure di sostegno della biodiversità. Anche a Sharm el-Sheikh, la Conferenza sul clima Cop27 del novembre scorso, il negoziato più difficile è stato sugli impegni (e meccanismi) finanziari. Sembra più concreta la strada — indicata dall’Unione europea già alla Conferenza in Egitto — di penalizzare le attività commerciali che minacciano la biodiversità, per almeno 500 miliardi di dollari l’anno. È un’indicazione, appunto: rendere antieconomico danneggiare l’ambiente. Poi ci sono indicazioni generiche, come quella di coinvolgere il senso di responsabilità dei consumatori. Si cerca la collaborazione di investitori privati, e ai Paesi sottoscrittori si chiede di fare un report annuale sui progressi ottenuti. Alle popolazioni indigene e autoctone dei territori ricchi di biodiversità si riconosce un ruolo di “custodi”. Chissà se saranno lusingate.
Gli obbiettivi sono in parte sussidiari: tra i 23 target, infatti, c’è anche il contrasto al cambiamento climatico e la riduzione dell’inquinamento. Ci sono poi voci “moderne” come la gestione dei dati genetici della biodiversità. Anche il precedente summit sulla biodiversità delle Nazioni Unite, che si è tenuto dodici anni fa in Giappone, si pose degli obbiettivi, ma fu un fallimento. Che questa volta si riesca nell’intento è una speranza. Nell’appello degli scienziati si parla di «obbligo morale» verso «noi stessi e le generazioni future». Con uno spiraglio di fiducia: l’obbiettivo di salvare il pianeta delle diversità che conosciamo, è realizzabile. Ma a una condizione: «Se agiamo ora e agiamo con decisione». © RIPRODUZIONE RISERVATA