Gli attacchi volgari di Salvini al conduttore di “Che tempo che fa” hanno dato la stura all’esibizione ipocrita di dichiarazioni indignate e vacue. Una selva di sepolcri imbiancati. Nessuno che abbia mai fatto un passo, uno solo, per sottrarre la principale azienda culturale del Paese alle grinfie dei partiti. E “i cattivi”, naturalmente, sono sempre gli ultimi arrivati (spesso rientrati con abiti nuovi). Un film che umilia centinaia e centinaia di professionisti di alto livello che animano ogni giorno la produzione di informazione, intrattenimento e cultura. L’ultimo è Fabio Fazio. A seguire un breve riepilogo delle puntate precedenti


Il commento di IGOR STAGLIANÒ

SIAMO SERI. GLI sberleffi di Matteo Salvini all’abbandono di Fabio Fazio non hanno sorpreso nessuno. I suoi modi garbati nei confronti di chi gli sta di traverso sono noti all’universo mondo della chiacchiera. Perché avrebbe dovuto fare eccezione stavolta, di fronte alla decisione di un professionista serio della tv italiana “assediato” da mesi con segnali ostili al suo lavoro? Peggio di lui (di Salvini) c’è solo la danza delle ipocrisie di una politica predatoria che concepisce da decenni il servizio pubblico radiotelevisivo un bottino di guerra ad ogni cambio di stagione, che s’indigna, puntualmente, ad ogni occupazione altrui.

Da alcune decadi è così. Vogliamo stare, per brevità, agli ultimi tre decenni? Erano bastati gli 8 mesi e sei giorni del primo governo Berlusconi (dall’11 maggio 1994 al 17 giugno 1995) a far emergere tutta l’anomalia del sistema radiotelevisivo italiano. Il duopolio, figlio del far west dell’etere durato tre lustri, si concentrò nelle stesse mani politiche del Biscione. Fu la prova generale di quanto avremmo visto all’opera per due legislature, dal 2001 al 2006, e dal 2008 al 2011, con i ritorni a Palazzo Chigi del Tycoon di Segrate: l’azienda di stato finisce nelle mani del suo concorrente diretto, con uomini e donne di Mediaset trasferiti sul groppone del cavallo di Viale Mazzini e nella tolda di comando di telegiornali e programmi. La concorrenza alle vongole, di cui siamo chef stellati in tutto il globo terracqueo.

Poco tempo dopo, il consiglio di amministrazione della Rai (fra cui Vittorio Emiliani), insediato dopo la vittoria dell’Ulivo di Prodi nel 1996, provò a formulare una proposta di riforma dell’architettura societaria. Era volta a frapporre un filtro tra governance aziendale e parlamento (la fonte di nomina degli amministratori), attraverso una Fondazione pluralista e indipendente. Un’idea ulteriormente precisata in una proposta di legge di iniziativa popolare che raccolse in poche settimane, nel 2004, più di 50mila firme. L’obiettivo era di sottrarre la gestione della Rai ai partiti politici e salvarla come bene comune del Paese. Non se ne fece nulla, benché la proposta fosse stata ripresentata negli anni successivi, alla Camera e in Senato, con il secondo governo Prodi, da Tana De Zulueta e Beppe Giulietti.

Il manifesto dell’ultima mobilitazione dei lavoratori Rai il 12 maggio 2021

Con la nomina di Roberto Fico a capo della Commissione di Vigilanza della Rai, subito dopo il dirompente ingresso dei 5 Stelle in Parlamento nel 2013, se ne tornò a parlare. Fico si dichiarò subito a favore delle ragioni che avevano mobilitato 50mila cittadini nove anni prima. L’azione del governo Renzi marciava in direzione opposta, mettendo direttamente nelle mani dell’esecutivo il potere di nomina dell’amministratore delegato di Viale Mazzini. Un tuffo all’indietro di quarant’anni, a prima del 1975, quando i capi della Rai li nominava il governo. A cui, con qualche illusione in più, era persino lecito pensare che si ponesse rimedio tre anni dopo quando i 5 Stelle risultarono il primo gruppo parlamentare ed espressero il capo del governo. L’esperienza di Fico per cinque anni alla Vigilanza Rai — divenuto intanto presidente della Camera nella legislatura trionfante di Beppe Grillo — sarà certo servita a preparare la riforma con cui «sottrarre ai partiti la gestione della Rai», pensammo in molti, nonostante imperversassero nei dintorni di Saxa Rubra e di Via Teulada gli Spadafora per conto dei Di Maio. Chi scrive era fra questi illusi, all’interno e all’esterno dell’azienda di servizio pubblico. 

«I partiti stiano fuori dalla Rai», ha tuonato ieri l’ex premier Conte dalle colonne de La Stampa in risposta agli sconci applausi di Salvini per la dipartita di Fazio. E ha proposto di convocare gli Stati Generali della tv. Ecco, se avesse guidato l’azione parlamentare per mettere «fuori i partiti dalla Rai» cinque anni fa (quando Salvini era suo vice), oggi la proposta sarebbe stata più credibile. non dovremmo sorbirci i tanti sepolcri imbiancati dalla dichiarazione lesta quanto vacua. Assisteremmo a un altro film. Più decoroso di quello che ci tocca vedere. Un’altra volta ancora. Dopo la Rai di Berlusconi, quella di Prodi e di Veltroni e di Monti e di Renzi e di Conte e di Draghi. E di Meloni. Un film che umilia centinaia e centinaia di professionisti di alto livello che animano ogni giorno la principale azienda culturale del Paese. L’ultimo — solo l’ultimo — è Fabio Fazio, al netto di tutte le critiche che possono essere fatte al suo lavoro. A cominciare dal malvezzo (comune a tante star) di farsi le società in proprio per produrre le trasmissioni che conducono. Ma questo è un altro film ancora, e ha a che fare con la “privatizzazione” de facto gestita da agenti e appalti esterni a Viale Mazzini. Ne parliamo un’altra volta. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Direttore - Da inviato speciale della Rai, ha lavorato per la redazione Speciali del Tg1 (Tv7 e Speciale Tg1) dal 2014 al 2020, per la trasmissione “Ambiente Italia” e il telegiornale scientifico "Leonardo" dal 1993 al 2016. Ha realizzato più di mille inchieste e reportage per tutte le testate giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo, e ha firmato nove documentari trasmessi su Rai 1, l'ultimo "La spirale del clima" sulla crisi climatica e la pandemia.