Senza una disponibilità di asili nido gratuiti – adeguata alle esigenze del territorio – è molto difficile in Italia per una coppia programmare la nascita di un figlio. La grande crisi della natalità di cui si parla è qui che trova il suo punto critico più forte. Le strutture pubbliche sono poche, ed è una lotteria trovare un posto. Gli asili nido privati sono spesso inaccessibili per i costi esagerati. Questo problema si accompagna alla precarietà nel lavoro che disincentiva i giovani ad avere un figlio. Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, parla del disagio sociale che impedisce alle coppie di guardare serenamente al futuro


L’inchiesta di ANNA MARIA SERSALE

SENZA NIDI GRATUITI è sempre più difficile programmare la nascita di un figlio. Le strutture pubbliche sono poche e trovare posto per un neonato è come vincere una lotteria. Nell’Italia della denatalità solo «un bambino su quattro» viene accolto, mentre il 60% non trova spazio nelle strutture pubbliche. Tra gli esclusi ben pochi possono permettersi i costosissimi nidi privati, le cui rette toccano anche i 500 euro mensili. Così cala la curva demografica. Senza posto al nido per tante giovani coppie diventa impossibile programmare, consapevolmente e liberamente, la nascita di un figlio. Certo, la carenza di strutture non è l’unica causa delle culle vuote, ma è una delle principali.

Niente nidi, niente bambini. L’Italia è diventato il Paese più anziano d’Europa, in cui gli under 15 sono meno degli over 65. Quanto sia grave la situazione lo rivela l’Istat: nel 2022 siamo scesi sotto i 400.000 nati, esattamente 339.000 nuove vite a fronte di 700.000 morti. Dal 2008 ad oggi le nascite sono diminuite del 30,6 per cento. Senza l’apporto degli immigrati staremmo peggio. Tutto è cominciato a metà degli anni Settanta. Da tempo il calo demografico non era quasi più considerato una notizia se non fossero arrivati i dati drammatici di poche settimane fa. Il crollo è scioccante. Le cifre vanno lette accendendo i riflettori sul tema, in apparenza secondario, dei nidi appunto. Sono numericamente insufficienti, in particolare al Sud. Ma in un Paese che lotta contro la denatalità e lo scarso inserimento lavorativo delle donne è davvero assurdo che i servizi per l’infanzia siano così carenti. Ma c’è un altro pericolo. Gli esclusi sono doppiamente discriminati. Nella fascia di età, che è la più delicata, zero-tre anni, si dovrebbero creare le basi per lo sviluppo delle future potenzialità cognitive e affettive, ma stando fuori della porta non riceveranno le cure per il benessere psicofisico tanto raccomandato da psicologi e pediatri.

Intanto i demografi da anni denunciano che per il dislivello tra vecchi (troppi) e giovani (pochi) siamo sotto la “soglia di sostituzione” generazionale. Quella sì che ci dovrebbe preoccupare, non quella di cui parlano esponenti di Fratelli d’Italia. Se le culle restano vuote è colpa delle politiche fallimentari che da anni trascurano i bisogni delle famiglie. Le nascite calano anche perché la nostra società non offre alle coppie giovani quello di cui hanno bisogno. Che la strada per uscire dall’inverno demografico sia l’aumento dei servizi lo dimostra la Germania, dove una serie di riforme importanti e stanziamenti cospicui hanno portato a un balzo delle nascite, 1,53 per donna. Da noi, tutto il contrario. Infatti, siamo all’1,25, con un’età media delle donne al primo figlio di 31,6 anni (le madri più anziane in Europa).

Chiara Saraceno, sociologa della famiglia

Nel tempo la politica ha ignorato il legame tra lavoro precario, salari bassi, disoccupazione femminile, caro affitti, mancanza di servizi territoriali e calo delle nascite.

«In condizioni di precarietà e incertezza non si fanno figli – avverte la sociologa della famiglia, Chiara Saraceno –. C’è un nesso tra la crisi della natalità e una grande sofferenza sociale molto diffusa, di cui non si è tenuto conto. Troppi giovani e troppe donne sono condannati alla precarietà assoluta. Mancano politiche di inserimento nel mondo del lavoro e, soprattutto nelle regioni del Sud, ma non solo, c’è una spaventosa carenza di asili nido pubblici, indispensabili per conciliare vita e lavoro».

I giovani sono stati lasciati soli, il lavoro sempre più povero e precarizzato, le disuguaglianze aumentate. Welfare e servizi per l’infanzia non sono stati considerati un investimento. Certo, la crisi demografica tocca tutto il mondo ad eccezione di pochi Paesi. Perfino la Cina in fatto di nascite comincia a registrare dei segni meno. Ma da noi è stato battuto il record: insieme a Spagna e Malta nell’Ue siamo il fanalino di coda. Continuando di questo passo, l’Istat calcola che entro il 2050 l’Italia avrà sette milioni di persone in meno. Non sarà facile scongiurare tale esito, i cicli demografici non si invertono dalla sera alla mattina. I dati hanno mostrato una tendenza al calo sempre più marcata e allarmante. Mai un segnale di ripresa, unica eccezione nel 2007, spazzato via dall’arrivo della crisi finanziaria.

Non avere nidi sufficienti è una grave discriminazione e sul fronte dei diritti un vero fallimento. Senza contare che, per la carenza di posti, si consumano dispute talvolta vergognose sulla pelle dei bambini. Con differenze tra città, province e regioni. In una giungla normativa perché sui nidi, considerati ancora oggi un servizio a domanda individuale, ogni amministrazione detta le sue regole. Di recente è capitato che in Campidoglio alcuni esponenti di Fratelli d’Italia pretendessero di far passare una risoluzione che escludesse i figli dei clandestini dagli asili nido. L’amministrazione del sindaco Gualtieri ha risposto che a Roma «nessun bimbo è illegale». Ma la bagarre è proseguita. Fd’I contesta la scelta del Comune di consentire l’iscrizione ai nidi e alla scuola dell’infanzia anche a chi ha residenza fittizia o a chi è privo del codice fiscale. Temono la sostituzione etnica? A bloccare le nascite, dunque, contribuiscono non pochi squilibri sociali e ritardi. Il governo Meloni come si prepara a rispondere alla crisi demografica? Stando alle intenzioni con meno tasse e più asili. Ma la ricetta appare insufficiente e soprattutto piena di incognite. Il ministro dell’economia Giorgetti propone meno tasse per chi fa figli perché sa che con la denatalità il Pil scende. Un rischio di cui ha parlato giorni fa anche  Giancarlo Blangiardo, ex presidente Istat: entro il 2040 potremmo perdere il 18% del prodotto interno lordo, per un ammontare di circa cinquecento miliardi di euro (dato che spaventa considerando il gigantesco debito pubblico sulla testa degli italiani).

Pierpaolo Bombardieri Uil; Maurizio Landini Cgil; Luigi Sbarra Cisl

Intanto dai sindacati confederali si solleva un vento di protesta con un possibile sciopero generale a breve. Ne discutono Landini, Sbarra e Bombardieri, nell’ordine leader di Cgil, Cisl e Uil. L’attacco è contro il Decreto Lavoro, ma si trascina dietro molti degli altri problemi sul tappeto. A cominciare dall’attuazione del Pnrr e dalle politiche di welfare. «Basta fare cassa tagliando i servizi, occorrono più asili nido, gratuità e obbligatorietà delle scuole per l’infanzia, e più tempo pieno, ma anche, soprattutto, politiche a sostegno dell’occupazione stabile e di qualità per giovani e donne», queste le richieste partite dalla Flc-Cgil per invertire rotta sulla natalità.

E proprio sull’attuazione del piano nidi montano le polemiche. Fin dai tempi di Draghi era stato fatto un piano straordinario nel Pnrr per la Next generation Eu. Sono in ballo 4,6 miliardi di euro, comprendenti 700 milioni per progetti già finanziati con fondi nazionali, 2,4 miliardi per la costruzione di nuovi asili nido, 600 milioni per le scuole dell’infanzia, 900 milioni per le spese di gestione. Un maxi stanziamento accompagnato da promesse di svolta epocale con l’obiettivo di attivare 2.600 progetti dedicati. Dopo un primo rinvio i lavori dovrebbero essere aggiudicati entro la fine di maggio, in vista del 30 giugno, data entro cui il governo deve dimostrare di avere rispettato una serie di obiettivi per poi richiedere la quarta tranche dei fondi europei pari a 16 miliardi di euro. Gli enti locali rassicurano, ma si sa già che i tempi non saranno rispettati. L’alternativa è la proroga o il taglio dei posti. Se ne parla poco, ma l’aumento delle strutture per l’infanzia è una delle sfide più urgenti perché l’Europa preme per il recupero dei ritardi nelle politiche per la famiglia e per la natalità. La Svimez, Associazione no-profit per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, nel periodico monitoraggio sull’attuazione di tutti i comparti del Pnrr, pochi giorni fa ha lanciato l’allarme, mettendo sotto accusa i ritardi e i criteri ministeriali sbagliati:

«A rischio la finalità di coesione prevista dal Pnrr – afferma Svimez – perché nel riparto delle risorse non hanno tenuto conto dell’eterogeneità delle singole regioni in termini di fabbisogno». In parte per colpa della debolezza e impreparazione delle amministrazioni, che non sono state messe in grado di affrontare una così importante sfida, al Sud, nelle isole, nelle città e nei centri più piccoli. «Il rischio è che – sottolinea Svimez – aumentino le disuguaglianze territoriali».

L’occasione per colmare realmente i gap territoriali sembra già sfumata. E un sistema di bandi competitivi ha finito per penalizzare proprio i territori già in sofferenza per mancanza di servizi. Tra le regioni più distanti dagli obiettivi Ue per la copertura di asili nido e servizi per l’infanzia ci sono Campania, Sicilia, Sardegna, Calabria e Molise. Storicamente al Sud lo Stato ha sempre speso di meno. Però meno soldi significa anche meno diritti. Mentre in Emilia Romagna, famosa per il livello qualitativo degli asili, la copertura è già vicina agli standard europei. Il problema è che non è stata fatta preventivamente una mappatura dei bisogni. Risultato: l’allocazione delle risorse assegnate attraverso procedure di bando non sono correlate alle reali esigenze. Sicché chi ha meno rischia di avere sempre meno. Un esempio per tutti: alle condizioni attuali la Valle d’Aosta potrebbe raggiungere il 70% di copertura dei nidi, mentre la Sicilia riuscirebbe a superare di poco il 10%. E per le donne siciliane mettere al mondo un figlio e lavorare resterebbe una chimera. Comunque, anche a livello nazionale la questione femminile è irrisolta. La metà delle donne italiane non ha occupazione. Un dato che dovrebbe farci arrossire di vergogna. Senza occupazione, con difficoltà economiche e senza servizi sul territorio, la maternità è un problema e molte rinunciano. Tra l’altro, per procreare, non basta liberare le donne dalla stretta di scegliere tra figli e lavoro. Su questo punto infatti si scontrano due diverse visioni della società. Quella del governo Meloni, modello tradizionale Dio-patria-famiglia, non considerando che il 39,9% dei bambini nasce fuori dal matrimonio. E quella laica, dei diritti, secondo le famiglie arcobaleno. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Giornalista professionista, ha lavorato al “Messaggero” dal 1986 al 2010. Prima la “gavetta” in Cronaca di Roma, fondamentale palestra per fare esperienza e imparare il mestiere, scelto per passione. Si è occupata a lungo di degrado della città, con inchieste sugli abusi che hanno deturpato il centro storico. Dal 1997 ha lavorato alle Cronache italiane, con qualifica di vice caposervizio, continuando a scrivere. Un filo rosso attraversa la sua carriera professionale: scuola, università e ricerca per lei hanno sempre meritato attenzione, con servizi e numerose inchieste.