Con l’attacco ai militari delle Nazioni Unite la guerra di Natanyahu imprime un ulteriore salto di qualità. Il conflitto mediorientale è già nel baratro di una escalation inarrestabile. In un delirio di onnipotenza, i militari israeliani avevano «ordinato» ai caschi blu di togliersi di mezzo per bombardare le postazioni di Hezbollah. Dura presa di posizione del ministro della Difesa italiana Guido Crosetto: «l’attacco alla base Unifil è un crimine di guerra». L’ambasciata italiana dello stato ebraico difende la scelta del suo esercito. Attesa da un momento all’altro la vendetta di Israele contro l’Iran. Mentre l’incendio divampa in tutte le direzioni, è necessario avviare una riflessione intellettualmente, moralmente e politicamente onesta sugli effetti del nazionalismo ebraico approdato in Palestina dopo le tragedie immani provocate dai nazionalismi europei. Con gli stessi germi bellicisti, violenti e autodistruttivi
◆ L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ
► Il delirio devastante del premer israeliano è inarrestabile. Sotto la mira dei suoi cannoni sono finiti ora i militari delle Nazioni Unite nel sud del Libano. I primi ad essere accecati dai cecchini sono stati gli obiettivi delle telecamere di sorveglianza della base Unifil in cui è impegnato anche un migliaio di soldati italiani assieme ai militari di altri cinquanta Paesi di tutto il mondo. Lo sfondamento in Libano deve avvenire senza testimoni. Una pratica operativa oramai diffusa a piene mani ovunque operino le truppe d’assalto della difesa di Israele. Per “giustificare” l’attacco, i vertici dell’Idf (e lo stesso ha fatto l’ambasciata israeliana a Roma) hanno affermato che avevano «ordinato» ai caschi blu dell’Onu di andarsene. Come se un comandante di campo israeliano avesse il potere di «ordinare» qualcosa ai caschi blu delle Nazioni Unite, per di più sul territorio di un paese sovrano, il Libano, in cui operano su mandato del Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro.
Un delirio di onnipotenza, alimentato dalla protervia di una superiorità tecnologica lampante, che acceca sempre più, un giorno dopo l’altro, i vertici politici e militari di Israele, isolando il proprio Paese nel consesso delle nazioni civili del mondo. Come se la potenza tecnica potesse fare a meno della sapienza politica. E come se non fosse bastato quanto è già avvenuto con i massacri indiscriminati dei palestinesi di Gaza e le uccisioni ininterrotte in Cisgiordania nell’ultimo anno. Un comportamento irresponsabile che atterrisce tanto più chi ha a cuore, come noi, il destino democratico di Israele, il “Paese-focolare” dei sopravvissuti della Shoah, dei loro figli e nipoti. Detto senza giri di frasi: se vogliamo salvare Israele da se stesso possiamo farlo solo dicendo la verità. E dobbiamo farlo mentre la macchina bellica continuerà a seminare terrore, devastazione e morte, una macchina messa in moto dal primo ministro israeliano e dai fondamentalisti religiosi che Netanyahu ha tirato dentro il suo governo per sopravvivere a scandali e malversazioni personali. La reazione all’orrore perpetrato da Hamas contro ebrei inermi il 7 ottobre di un anno fa, un pogrom inammissibile, non può giustificare tutto. No, non può.
La verità è che il morbo del nazionalismo s’è impossessato del corpo politico di Israele e devasta il suo corpo sociale da molto tempo. Il rischio paventato dagli analisti più attenti di una guerra civile interna ad Israele è tutt’altro che remoto, se le cose continueranno ad andare avanti come da qualche anno in qua. La venatura di integralismo messianico dei suoi estremisti è solo lo stadio più recente di una malattia cresciuta sotto pelle, neutralizzando gli anticorpi democratici e pluralistici che ne avevano reso possibile la nascita nel 1948 come Stato sovrano, riconosciuto e rispettato dal mondo. «Una zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri Paesi», per citare Primo Levi. Dire la verità è avviare finalmente una riflessione e un bilancio di come, nel Novecento, s’è inverato sull’altra sponda del Mediterraneo il sionismo dei padri dell’Israele moderno pianificato alla fine dell’Ottocento, antecedente quindi alla tragedia nazista. E ci sarà stata ben una ragione — checché ne dicano “storici” a gettone nei nostri talk televisivi — se all’ebbrezza sionista si sottrassero uomini e donne ebree come Albert Einstein, Hannah Arendt o, appunto, Primo Levi, mentre la “dottrina” prendeva corpo nella realtà della Palestina storica abitata (eh già!) da qualche milione di palestinesi.
Sono passaggi troppo rilevanti per tratteggiarli in poche parole qui ed ora. Eppure bisognerà farlo con l’attenzione e la profondità dovute: la tragedia mediorientale si appresta a un salto di qualità che getta tutti nello sconcerto. E queste pagine resteranno sempre aperte al confronto intellettualmente, moralmente e politicamente onesto. Per ora, qui basti richiamare, una volta ancora, le parole dello scrittore torinese durante la penultima guerra fatta in Libano da Israele nel 1982. Su “La Stampa” del 24 giugno di quarantadue anni fa scrisse Primo Levi: «Israele, sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, va acquisendo i comportamenti degli altri Paesi del Medio Oriente, il loro radicalismo, la loro sfiducia nella trattativa». Qualche giorno prima, sullo stesso giornale, era andato più in profondità: «Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente (gli ebrei perseguitati in Europa, ndr) non poteva che seguire un verbo che aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è un nodo geografico sotto tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie e politicamente sbagliate».
Quarantadue anni dopo, le parole di Primo Levi («azioni temerarie e politicamente sbagliate») sono pietre ancora più acuminate di ieri. E oggi ci manca da morire un punto di riferimento morale e politico come lui. Netanyahu (per sopravvivenza personale) e Hamas (per sopravvivenza politica) hanno aperto il vaso di Pandora del peggio della natura umana. Da cui non sono immuni, va da sé, neanche gli eredi politici e istituzionali del genocidio più spaventoso mai subìto dal popolo ebraico e consumato nel cuore dell’Europa ottanta e passa anni fa. Questa è la cruda — e crudele — realtà. E tocca a noi avere il coraggio di guardarla in faccia. Ora. © RIPRODUZIONE RISERVATA