Giovedì 24 marzo, papa Bergoglio: «Una pazzia aumentare la spesa per le armi al 2%, mi sono vergognato»

“All’armi, all’armi”, e pure di corsa, col passo del bersagliere tromba in resta e piume al vento: dal Manzanarre al Reno e oltre, due secoli dopo il Manzoni, per altri disegni napoleonici, da realizzare o da contrastare. Come se la somma dei bilanci militari nazionali in Europa non fosse già tre volte e mezzo superiore al totale russo: 227,8 miliardi di euro contro 66,9. In Italia, «la percentuale delle spese in conto capitale» è passata «dall’11, 4%  del 2016 al 22,3 del 2022»: in termini assoluti questanno sfioriamo i 9 miliardi di euro. Ce lo dice il Servizio studi della Camera dei deputati. Ma non basta ancora e siamo sull’orlo della Terza (e ultima) Guerra Mondiale. È questo che prepariamo ai nostri figli?


Questo editoriale apre il numero 23 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dall’1 aprile 2022

L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ

NO, NON C’È più religione: con l’elmetto calato sugli occhi, al Tg1 persino il Papa non ha diritto di parola contro armi e guerra. Giovedì 24 marzo, papa Bergoglio è netto: «Una pazzia aumentare la spesa per le armi al 2%, mi sono vergognato». Parole riprese da tutta la stampa mondiale. Tutta, tranne il telegiornale della rete ammiraglia Rai diretto da Monica Maggioni. Una censura durata un giorno intero, fino alle 13:30 del giorno dopo, oramai decontestualizzata dall’annuncio di Draghi di aumentare le spese militari. A Montecitorio, due giorni prima avevamo visto un Draghi impettito: «Putin vuole la guerra. Vi manderemo altre armi», rivolto al presidente Zelenzky. Pensavamo che la Repubblica ripudiasse la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»: art. 11 della Costituzione italiana. C’era poi un’altra frase-chiave nell’intervento del premier, ma la vediamo fra qualche riga.

“All’armi, all’armi”, e pure di corsa, col passo del bersagliere tromba in resta e piume al vento: dal Manzanarre al Reno e oltre, due secoli dopo il Manzoni, per altri disegni napoleonici, da contrastare o da realizzare. Come se la somma dei bilanci militari nazionali in Europa non fosse già tre volte e mezzo superiore al totale russo: 227,8 miliardi di euro contro 66,9. Armonizzarli e ridurli è forse la cosa giusta da fare. O no? In Italia, «la percentuale delle spese in conto capitale» è passata «dall’11, 4%  del 2016 al 22,3 del 2022»: in termini assoluti questanno sfioriamo i 9 miliardi di euro. Ce lo dice il Servizio studi della Camera dei deputati. Lo rilevano i sondaggi demoscopici fra i cittadini italiani contrari ad altre armi. Ma non basta ancora, dopo gli ordini impartiti ai governi dell’Alleanza atlantica dal comandante in capo, Joe Biden, a Bruxelles.

L’Unione europea ha bisogno di darsi una politica estera comune e, conseguentemente, una politica di difesa comune

Nella logica binaria imperante — secondo il format televisivo “o di qua o di là” — vogliamo essere chiarissimi, per non finire d’ufficio nell’elenco dei “putinieri” stilato dagli opinionisti a gettone: per pesare nel mondo, l’Unione europea ha bisogno di darsi una politica estera comune e, conseguentemente, una politica di difesa comune. Occorre riallacciare, cioè, i fili intessuti nel 1954 dopo il Secondo conflitto mondiale da Pierre Mendès France e Alcide De Gasperi per una Comunità Europea di Difesa, come ha ricordato su queste pagine Vittorio Emiliani. Anche qui, qualche cifra aiuta il ragionamento. Nel 1957, i Paesi fondatori della Comunità europea spendevano il 4% del Pil per la difesa, poi sono scesi sotto il 2% in piena Guerra fredda. Per una ragione molto semplice. In un disegno federalista, l’Europa ha coltivato una sola ambizione: un ordine internazionale fondato su istituzioni democratiche e sul consenso, non sulla deterrenza.

L’Europa unita è il primo e unico esperimento nella storia umana di cessione volontaria di sovranità per un edificio politico e istituzionale superiore [credit Ansa Massimo Percossi]
Abbiamo costruito così — lo hanno fatto i nostri padri — il primo e unico esperimento nella storia umana di cessione volontaria di sovranità per un edificio politico e istituzionale superiore basato sulla democrazia dei diritti. Lo abbiamo fatto su un Continente insanguinato da due Guerre mondiali con sessanta milioni di morti. Pace e benessere hanno conquistato i giovani d’Europa, ben oltre la cortina di ferro che lo aveva diviso per mezzo secolo. Fino a che… Fino a che — dopo il crollo del Muro di Berlino — «la fine della storia» “decretata” da Fukuyama non ha rimesso in moto i vecchi arnesi della carneficina nel mondo, visti all’opera nel disfacimento della ex Jugoslavia. Fino a che — a margine dei moti di Piazza Maidan a Kiev nel 2014, prove generali della guerra in corso — Victoria Nuland (segretario di Stato americano aggiunto), al telefono con l’ambasciatore Usa in Ucraina, Geoffrey Pyatt, gli ricorda i 5 miliardi di dollari spesi lì dal suo Paese e se ne esce col suo «Fuck the Eu»: «L’Unione europea si fotta». Appunto, si fotta l’Europa, prima vittima politica ed economica della guerra per procura tra Stati Uniti e Russia — di cui siamo già cobelligeranti senza dircelo apertamente — innescata dall’invasione russa del territorio ucraino. 

E qui c’è la seconda frase-chiave del premier Draghi — cui accennavamo prima — pronunciata a Montecitorio, rivolto al presidente Zelensky sotto assedio dal “macellaio Vlad”: «Vi apriremo le porte dell’Europa». Ecco, lo avessimo fatto nel 2008, come prospettò Romano Prodi — in alternativa ai traffici dei falchi americani per tirare l’Ucraina ad ogni costo dentro la Nato —, oggi l’Europa sarebbe un soggetto politico autorevole e autonomo rispetto ai disegni militari dell’Alleanza atlantica a guida statunitense. E non saremmo sull’orlo della Terza (e verosimilmente ultima) Guerra Mondiale, legati al filo mortale dei fossili, alla mercé di oligarchi e autocrati. È questo che prepariamo ai nostri figli? © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Direttore - Da inviato speciale della Rai, ha lavorato per la redazione Speciali del Tg1 (Tv7 e Speciale Tg1) dal 2014 al 2020, per la trasmissione “Ambiente Italia” e il telegiornale scientifico "Leonardo" dal 1993 al 2016. Ha realizzato più di mille inchieste e reportage per tutte le testate giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo, e ha firmato nove documentari trasmessi su Rai 1, l'ultimo "La spirale del clima" sulla crisi climatica e la pandemia.