I sogni di due bambini, Annabella e Oliviero, si incrociano e trovano nella visione del loro maestro, Lucifero Bellavista, un esercito di valorosi guerrieri. Condannati in forma di piccoli soldatini, solo un’azione ardimentosa può spezzare la maledizione che li tiene legati alla loro inerme postura provocata da un’azione empia e senza onore compiuta cinque secoli prima. Annabella sogna di essere rapita da formiche che la vogliono regina, Oliviero impegnato nella “battaglia onirica” di Roncisvalle viene avvisato del rapimento della sorella. Le parole dell’assopito autore liberano l’esercito che coglie l’occasione di riscatto e redenzione lanciandosi verso il salvataggio di Annabella. Un raggio di luna argentato guiderà la valorosa avventura dei soldatini tornati guerrieri: «Questa notte, dopo il combattimento, bivaccheremo tutti nel paradiso dei soldati»
Il racconto di HERR K.

COM’È GRADEVOLE ADDORMENTARSI e sognare in una vecchia casa di campagna, a mezza costa. Un po’ sotto il crinale delle boscose colline che separano la Val d’Arno dal Casentino, dalla parte di Talla, la “Grancasa” stava lì dall’anno di fondazione, 1769 era scolpito su una trave d’ingresso. Tutta costruita in pietra, dava spazio al legno nelle robuste travature interne sui soffitti. Due piani, un sottotetto e varie stanze, in una disposizione che poteva ricordare, in piccolo, le navate di una basilica, e una loggia aperta su cui spioveva con pendenza gentile il tetto sostenuto da pilastri in pietra, robusti ma non invadenti. Da lì si poteva cogliere, ampio e scosceso ma non troppo, il fondovalle e, a saperlo sentire, il rumore del torrente che vi scorreva. Trote guizzanti, catturate con un forchettone e molta pazienza, solo un esercizio di bravura per chi ci riusciva, perché venivano poi rimesse nell’acqua del torrentello. Nella stanza in fondo al secondo piano una scala immetteva attraverso una botola in un solaio dove c’era un po’ di tutto, vecchi mobili e una grande cesta di vimini come si conviene ad ogni soffitta. C’era anche uno scaffale a tre ripiani pieno di scartafacci e di qualche vecchio libro. Uno in particolare aveva attirato la sua attenzione, perché non si riusciva a leggere il titolo sulla copertina e anche nelle pagine interne, dove abbondavano strane figure, la lingua sconosciuta non si apriva alla sua comprensione. Dopo averci perso un po’ di tempo la figura di un athanor e il “quadrato del sator” lo avevano convinto che doveva trattarsi di un’introduzione ad arti, o, più modestamente, pratiche magiche.

Il sole che entrava di sguincio da un finestrone coricato illuminò una fila di formiche che risalivano su uno spigolo della parete. Di quelle non enormi, ma di dimensioni sufficienti a ricordargli una favola che una zia gli aveva letto da un suo libriccino. Nell’“Incantesimo di mezzanotte” – questo era il titolo (*) – una bella bambina, Annabella, sognava di essere rapita da formiconi azzimati come in una corte seicentesca, che volevano farne la regina del formicaio, quello che stava nell’orto di casa. Ma il sogno di Annabella si era incredibilmente intrecciato con quello del fratello, Oliviero, come avevano scoperto, insieme, la mattina dopo al risveglio. Oliviero, impegnato con il paladino Orlando nella battaglia di Roncisvalle, aveva infatti intravisto tra fendenti, corazze e schinieri un omino con un buffo cappello con tanto di piuma sulla testa, che si sbracciava a fargli segni. Era l’“omino dell’orto”, causa involontaria del rapimento di Annabella. Fuggito dal formicaio, dopo incredibili peripezie, l’omino, anche lui “della materia stessa di cui sono fatti i sogni” si era precipitato da Oliviero per avvertirlo del pericolo che correva la sorella. Anche nell’orto, a quanto pare, i formiconi restano “diversamente belli”, come si direbbe con i consunti stilemi intesi a coprire aggettivi e sostantivi sgradevoli. Talvolta riuscendo a peggiorare.
Orto e formiche testimoniavano che Annabella e Oliviero vivevano in una vecchia casa di campagna. E Roncisvalle era il retaggio dei sontuosi racconti cavallereschi, che facevano pendere Oliviero dalla bocca di Lucifero Bellavista, l’impeccabile maestro che veniva ogni settimana a fare lezione ai ragazzi. Sullo sfondo, una madre, rimasta sola con i figli in quella casa un po’ isolata, il cui compito fondamentale sembrava preparare lasagne con un sugo che faceva arricciare i baffi al maestro Bellavista, quando, invitato, si tratteneva assai volentieri a cena. Seduto, su una sedia quasi “alla Savonarola”, ritrasse il pensiero dalle formiche, da Annabella e da Oliviero per concentrarsi, cercare di penetrare il testo del vecchio libro, aperto sul tavolone abbondantemente roso dai tarli. Che mai avrebbero potuto significare quelle tre parole se fosse riuscito a leggerle per bene? Certo non lo aiutava il sopore che lo stava assalendo per la fatica della lunga passeggiata mattutina, en plen air, per i pendii boscosi del crinale sopra la “Grancasa”. Ma il sole che illuminava di taglio le pagine con i suoi ultimi raggi gli venne in soccorso: “Naharak Said Sidi”. Beh, a questo punto valeva pronunciarle, almeno tre volte come prevede ogni rituale che si rispetti. Anche se non in piedi, trattenuto com’era dalla suadente pseudo Savonarola. Risuonò subito un gran colpo, più forte di quando si stappa una bottiglia di spumante, accompagnato da un odore vagamente sulfureo. Veniva dal vecchio calamaio, di un cristallo azzurro scuro, che là in un angolo del tavolo aveva resistito vittoriosamente quando, incuriosito, aveva tentato più volte di togliergli il coperchio.

La luna, appena sorta, illuminò il grosso calamaio. Un cristallino suono di carillon, che echeggiava l’aria di una marcia militare, si diffuse intorno mentre dalla larga bocca del calamaio cominciò a uscire un corteo di personaggi minuscoli. Era la più straordinaria compagnia di soldatini mai vista. Corazze brunite allacciate sulle giubbe dalle maniche a sbuffi, morioni a tesa curva per la difesa del capo, erano equipaggiati di tutto punto, dagli archibugi alle bardature dei cavalli. Non mancava un tamburino, con un tamburo poco più piccolo di un ditale da ricamo. Procedendo su una strada segnata da un raggio d’argento della luna il drappello avanzò sul tavolo fino al libro aperto sulla pagina della formula magica.
«Sono Sacripante di Rivalpiano», gli disse il capitano, sceso da un cavallino poco più grande di uno scarabeo, accompagnando la presentazione con un largo saluto col cappello piumato. «E questa qui schierata è la Compagnia dello Stendardo Azzurro». «Perché eravate chiusi in quel calamaio?» fu l’inevitabile domanda. Mostrando un evidente imbarazzo, il signor di Rivalpiano, con due baffi da vero capitano, rispose con umiltà: «Cinque secoli fa, all’assedio di Firenze, i miei uomini, pur sempre valorosi in combattimento, entrarono in una chiesa deserta abbandonandosi al saccheggio degli arredi sacri. Una voce profonda e irata ci dannò per quell’azione empia e senza onore. Ridotti a statura minuscola saremmo rimasti chiusi nel calamaio fino a che la parola giusta non ci avesse liberato per compiere una buona azione, un’azione di riscatto». Pur affascinato dai personaggi di quella piccola compagnia e dalla storia appena ascoltata non poté trattenersi dal chiedere a Sacripante: «Sì, ma quale buona azione?». Mentre il capitano, interdetto, controllava gli scarti del suo cavallino irrequieto, si era fatto avanti l’“omino dell’orto”, rimasto fino a quel momento in disparte: «Ordina alla Compagnia dello Stendardo Azzurro di andare a liberare Annabella, prigioniera nel formicaio», gli si era rivolto tanto direttamente quanto risolutamente. E così aveva fatto.
Annabella sarebbe stata seduta sul trono, su una piattaforma a ognuno dei cui quattro angoli doveva essere legato per una zampa a un palo un cervo volante. E sarebbe stata impalmata dal più valoroso dei nobili formiconi che fosse riuscito a raggiungerla superando il mortale sbarramento dei coleotteri. Questo tipo di giostra davanti alla Corte la fanciulla l’aveva concordato, piccola ma tremenda vendetta, con il Gran Consiglio della Corona, che l’aveva trattenuta in carcere, per le sue decise ripulse a sposare uno dei pretendenti, fino a strapparle un consenso. Il sergente Spezzaferro stava guidando la squadra in avanscoperta verso il cuore del formicaio. Anche il tamburino, Rataplan, aveva pregato il capitano di poter essere della partita e aveva appena ammonito Buricchio, l’archibugiere, di smettere quel suo fischiettare spavaldo. Troppo tardi. «Ci hanno scoperto», sibilò Manolesta. Un colpo di archibugio esplose nella notte nell’orto e una pallottola sibilò sopra le loro teste. «Mano alle spade», gridò il sergente uscendo allo scoperto e maneggiando la partigiana come solo lui sapeva fare. Fu questione di qualche traversone e il gruppetto di formiche, che si erano parate innanzi armate fino ai denti, si era dato alle gambe tranne le tre fatte prigioniere.

«Dove sta Rataplan» chiese con ansia il sergente, mentre erano sulla strada del ritorno. Fu Buricchio a proporsi di tornare indietro a cercarlo. Finalmente, dopo tanti richiami, gli sembrò di sentire in risposta un lamento là, al termine di un filare di insalata. Lo trovò rovesciato a terra, inerte, e si accorse che perdeva sangue. Provò un senso di colpa per quella ferita e, caricatosi il ragazzo sulle spalle, raggiunse i compagni, ormai in vista dell’accampamento. «Non è profonda come un pozzo né larga come una piazza, però può mandare all’altro mondo» aveva sentenziato Mastro ‘Taglia e Cuci’ esaminando la ferita del tamburino, che sdraiato su una foglia di lattuga vaneggiava in preda a una forte febbre. «Però con una buona ragnatela il sangue ristagnerà e, quasi certamente, ce la farà». Il capitano aveva interrotto la partita a dadi che stava giocando con uno dei suoi ufficiali al chiarore della luna, e, terminata la medicazione del cerusico, aveva promesso: «Prima dell’alba attaccherò il formicaio con tutta la Compagnia. Voi intanto …» e completò la frase pronunciando le istruzioni all’orecchio del fido Spezzaferro. Le dense nuvole del fumo di un incendio che salivano dal formicaio non impedivano di vedere l’esercito delle formiche schierato in ordine di combattimento. Rataplan, prodigiosamente ristabilito, aveva fatto rullare il tamburo per l’adunata e il capitano Sacripante, fiero sul suo cavallino, con le piume sul feltro e la spada balenante, aveva esortato i suoi uomini: «È giunto il momento di riscattarci dalla vergogna delle nostre colpe. Questa notte, dopo il combattimento, bivaccheremo tutti nel paradiso dei soldati».
«Tamburo, suona la carica!» ordinò Sacripante chinandosi sull’arcione. Al rullo del tamburo la Compagnia mosse all’attacco e poco dopo la battaglia si scatenava tremenda, spaventosa. Le formiche cercarono a lungo di difendersi, ma poi, sopraffatte dall’impeto di quei soldatini di ventura, cominciarono prima ad arretrare, a disgregarsi finché, prese dal panico, retrocedettero e si dispersero. «Tutto il campo è nostro – esclamò vittorioso il capitano a fine giornata guardando i suoi uomini in parte decimati – e quello cos’è, un fantasma?». Attraverso gli ultimi lembi di fumo avanzava barcollante una figura con un fardello sulle braccia. «È il sergente Spezzaferro», gridò Buricchio. Annabella era stata abbandonata sul trono della giostra, nella fuga di tutta la corte per l’incendio e nell’urgenza improvvisa di far fronte agli assalitori. Il sergente, pur ferito a fondo nell’azione di sorpresa per incendiare il granaio del formicaio, aveva combattuto quei tremendi cervi volanti e l’aveva in fine presa in braccio, svenuta, per portarla in salvo. Solo un’incredibile forza di volontà l’aveva condotto fin lì, al sicuro, ma, depositata la fanciulla, Spezzaferro era ormai a terra, agonizzante. Il capitano scese da cavallo, si inginocchiò presso di lui con parole di rassicurazione per il riscatto così duramente conseguito. Una mano pietosa chiuse le palpebre sugli occhi del sergente, rimasti aperti a fissare la luna appena sorta.
Il capitano ordinò che il corpo del valoroso fosse ricoperto con lo Stendardo Azzurro della Compagnia. «Voi, damigella, siete stata la causa della nostra salvezza» disse, piegando il ginocchio davanti ad Annabella che aveva ripreso i sensi. Le baciò un lembo della veste bianca mentre il suono del misterioso carillon saliva lì, tra le piante dell’orto bagnate di rugiada. Il signor di Rivalpiano balzò elegantemente in arcione e ordinò l’adunata. La Compagnia, riacquistato l’onore perduto, poté riprendere la strada sul filo d’argento di un raggio di luna. Con le bare dei suoi caduti, verso il cielo stellato. La testa era ormai da tempo crollata per il sonno sul vecchio libro e, in quella posa, gli parve di scorgere, alto nel cielo sulla strada d’argento, il capitano Sacripante, signor di Rivalpiano, che dal suo cavallino agitava verso di lui il cappello piumato come in un segno di addio. Forse un arrivederci. In einem Mitternachtszauber (In un incantesimo di mezzanotte, ndr). © RIPRODUZIONE RISERVATA
(*) Eros Belloni, Ed. Cosmopolita, Roma, 1945