
L’analisi di MAURIZIO MENICUCCI
ARIA CHE VAI, Covid che trovi. A sostenerlo sono, fino a oggi, ben 35 studi, firmati da pool interdisciplinari, che hanno valutato diversi meccanismi fisici e chimici, alcuni noti, altri possibili, connessi alla pandemia. Dopo aver notato che a ogni ondata i picchi dei contagi, delle complicazioni e dei morti si sovrappongono con sorprendente costanza alla geografia delle regioni più industrializzate, e applicando metodi d’analisi spesso differenti, approdano, o meglio, risalgono, alle medesime conclusioni: non è un caso, ma un’evidente conseguenza delle condizioni dell’ambiente. Dalla Pianura Padana, alle regioni più ricche e abitate d’Europa, dalle capitali americane alle megalopoli asiatiche, e in generale ovunque, nel mondo, l’umanità si accalca e produce, le polveri sospese favoriscono l’azione del Sars CoV-2.

Prima di procedere, sgombriamo subito il campo dalle perplessità riguardo a questo apparente accanirsi della ricerca — 35 volte in due anni — su un’unica tesi. La ragione di tanta insistenza, ovviamente, non è ideologica, accusa che del resto equivarrebbe a negare il rapporto tra le attività antropiche e gli squilibri ambientali. Sta, al contrario, nella necessità, molto pratica, di schivare le trappole, e le critiche, di una dimostrazione che, se in partenza sembra scontata, si rivela, poi, assai complessa proprio nel passaggio, obbligato, dalla qualità alla quantità della causa. È intuitivo, in altre parole, che i polmoni che respirano smog siano cronicamente infiammati e più esposti all’attacco e ai danni da coronavirus. Molto meno semplice è calcolare quanto “pesa” l’aria inquinata rispetto alla dozzina e forse più di elementi che possono aiutare il coronavirus.
Tra questi, i fattori climatici come il sole, le precipitazioni, e soprattutto il vento; le abitudini, il profilo demografico e sanitario, la densità abitativa e lavorativa, la frequenza e il tipo degli spostamenti, l’economia prevalente, l’effetto e il rispetto delle precauzioni, o la distinzione tra decessi “per” o “con” il Covid, nodo che dagli esordi della pandemia resta particolarmente imbarazzante per gli esperti di statistica…

L’ultimo dei trentacinque lavori, il secondo per gli autori (gli economisti Leonardo Becchetti, Gabriele Beccari, e Gianluigi Conzo, dell’Università Tor Vergata di Roma, Pierluigi Conzo dell’Università di Torino, Francesco Salustri dello United College di Londra e l’ingegner Davide De Santis, di Tor Vergata) è in via di pubblicazione [leggi qui l’abstract], quindi tutt’ora oggetto di verifiche. Le sue anticipazioni, già disponibili in rete, denotano un crescente rigore nell’allineare, depurare e rendere coerente la mole di dati attinta da fonti qualificate come Istat, per la parte epidemiologica, e i satelliti del sistema europeo Copernicus, per la parte atmosferica. Becchetti e colleghi, che già avevano attribuito alle polveri sottili della Lombardia una mortalità doppia rispetto alla Sardegna, arrivano adesso a ritenere drammaticamente verosimile che l’aggiunta di un solo microgrammo di Pm10 per ogni metro cubo sia responsabile di venti morti in più ogni cento, cioè di una crescita del 5.9 per cento del tasso di mortalità.
Il ruolo chiave del particolato nella pandemia, in ogni caso, non è solo quello, di lungo termine, che indebolisce le vie aeree. Non per nulla, siamo di fronte a un organismo molto ben attrezzato dalla selezione naturale per un essere opportunista globale, che vuol dire approfittare di ogni occasione per diffondersi. Un secondo meccanismo, questa volta breve, vede le micro polveri adsorbire, cioè legare alla loro superficie il coronavirus e trasportarlo più lontano, e a lungo, sulle ali di un normale aerosol. Stabilire quanto conti, nel complesso, questo fenomeno, è l’ennesima sfida. Secondo I nostri autori, un forte indizio della sua consistenza è che i grafici dello smog, rilevati ogni giorno dalle centraline, seguono puntuali come una profezia quelli del Covid 19: tra i sei e gli otto giorni i contagi, tredici i decessi. Tradotto in cifre con una stima approssimativa, il “tappeto volante” contribuirebbe per un quarto alla letalità del virus, contro i tre quarti dell’azione infiammatoria. Altre fonti dichiarano, però, impossibile seguire questa pista.

Forse, per comprendere meglio come agisce la combinazione tra il virus e l’aria inquinata, dovremo osservare come si comporta Omicron. Ragionando in teoria, quindi su un terreno dove Sars CoV-2 ci ha fin qui impartito memorabili lezioni di umiltà, quel che vale per le passate varianti, potrebbe non valere per l’ultima: la sua estrema capacità di contagio potrebbe confermare il contributo dello smog alla mortalità, rendendolo fattore irrilevante dell’equazione. Come sarebbe, per restare al caso di scuola, se si scoprisse che, tra Lombardia e Sardegna, le forti differenze di mortalità, in un quadro pandemico ormai egemonizzato da Omicron, si stanno livellando.
Certo, sarebbe lecito chiedere a che serva concentrarsi, qui e ora, sulla sinergia tra i microorganismi e le alterazioni ambientali: certo non a combattere questa emergenza della pandemia, che richiede terapie urgenti. Ma proprio perché lo smog, con ogni evidenza, non alimenta solo il Sars Cov-2, ma tutti i patogeni respiratori, questi studi dicono che risanare l’ambiente resta l’unico modo per abbassare il rischio delle prossime, incombenti, ritorsioni biologiche e climatiche, con le quali la Terra sembra volersi sbarazzare di noi e del nostro sempre più irreparabile successo di specie. E dal momento che Leonardo Becchetti è un solido economista — non un filosofo né un giurista alle prese con opinabili interpretazioni della pandemia — lasciamo il compito di far quadrare i conti e indicarci una possibilità alle parole che Becchetti aveva scritto quasi due anni fa, su “Avvenire”. Eccole.

«Molti dei fattori che hanno aggravato gli effetti del Covid-19 sono sotto il nostro controllo. Se guardiamo alle polveri più sottili (Pm2,5) solo il 6% dipende da movimenti atmosferici. Il 57% è prodotto dal riscaldamento domestico, mentre quote attorno al 10% ciascuna dalle modalità di trasporto, dalle fonti di energia e dalla produzione industriale ed agricola. La risposta non è la decrescita, ma uno sviluppo resiliente che è innanzitutto interesse delle nostre imprese e del nostro sistema economico, se non vuole andare incontro ad altre gravi paralisi e… vedere… i propri asset deprezzati per la sola esposizione a questi rischi, prima ancora che si materializzino….
«I risultati del nostro studio — conclude il professor Becchetti —, messi assieme agli altri citati, suggeriscono che il modo più prezioso di usare le risorse economiche per la ripartenza è quello di una ‘green industry 4.0’ che agevoli ed acceleri gli investimenti volti a favorire una riconversione produttiva e non solo a ridurre l’esposizione a fonti inquinanti. Il campanello è suonato, l’allarme è arrivato, sarebbe irresponsabile per le nostre vite, la nostra società, la nostra economia non trarne le conseguenze». © RIPRODUZIONE RISERVATA