Daniele Spizzichino – ingegnere dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale – parla a Italia Libera della situazione e condizione del nostro territorio dove case, fabbriche e centri commerciali sono stati edificati in zone ad alto rischio di alluvioni e frane. «Le cause d’instabilità sono di carattere naturale e antropico. Il nostro territorio, per le caratteristiche geologiche, morfologiche e idrografiche, è naturalmente predisposto a fenomeni franosi e alluvionali. Comunque, le cause del dissesto sono molteplici, derivano dall’azione combinata di più fattori, in particolare il cambiamento climatico che nell’area mediterranea ha prodotto eventi distruttivi e piccoli cicloni»
L’intervista di ANNA MARIA SERSALE
LA CEMENTIFICAZIONE DIVORA ogni anno più di 70 chilometri quadratidi territorio e il 94 per cento dei Comuni italiani è a rischio dissesto idrogeologico. Ischia è stata l’ultima tragedia, in ordine di tempo, nella notte tra il 25 e il 26 novembre Casamicciola è stata travolta da una colata di fango e detriti che precipitava a grande velocità. In Italia migliaia di case, fabbriche e centri commerciali sono stati edificati in zone ad alto rischio di alluvioni e frane. Di tutto questo parliamo con Daniele Spizzichino, ingegnere dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, lavora nel Dipartimento per il servizio geologico, quale esperto di pianificazione degli interventi strutturali per la mitigazione del dissesto, anche attraverso l’applicazione di nuove tecnologie.
— Perché l’Italia è così fragile?
«Le cause d’instabilità sono di carattere naturale e antropico. Il nostro territorio, per le caratteristiche geologiche, morfologiche e idrografiche, è naturalmente predisposto a fenomeni franosi e alluvionali. Comunque, le cause del dissesto sono molteplici, derivano dall’azione combinata di più fattori, in particolare il cambiamento climatico che nell’area mediterranea ha prodotto eventi distruttivi e piccoli cicloni. Ma torniamo al dissesto. È vero, il 93,9 per cento dei Comuni italiani ha almeno una porzione di territorio a rischio, da lieve a medio, ad alto o molto alto. La pericolosità può essere geologica e idraulica. L’esposizione ai rischi riguarda 1,3 milioni di italiani che vivono in territori con pericolo di frane. E ci sono altri 6,7 milioni di italiani che vivono in territori dove il rischio frane e alluvioni è elevato. Non dimentichiamo che il 75% del suolo italiano è montano-collinare. C’è la dorsale appenninica, per esempio, che è vulnerabile ed è a rischio frane e terremoti. La fragilità dell’Italia dipende anche dal fatto che è un paese geologicamente giovane e per questo instabile, naturalmente soggetto a dissesto idrogeologico e a sismi. Però alle cause naturali si è aggiunta la mano dell’uomo, che ha aggravato una situazione già di per sé complessa, e reso più fragile e indifeso il nostro territorio. Abbiamo costruito ovunque, anche dove non si sarebbe dovuto, con livelli di consumo del suolo che hanno fatto aumentare le criticità esponendo maggiormente il territorio al dissesto, ecco perché quasi tutti i Comuni sono a rischio idrogeologico. Tra i casi più preoccupanti Ischia e l’intera area flegrea. Se da venti anni è vietato costruire in aree pericolose, il problema ora è quello di non autorizzare condoni e non rendere possibili sanatorie del già costruito, imponendo vincoli precisi. In realtà, è molto raro l’abbattimento di strutture, invece ci vorrebbe fermezza e coerenza da parte dei governi territoriali».
— Perché gli eventi devastanti si ripetono con sempre maggiore frequenza e intensità?
«Nel quadro delicato di cui parlavamo, come dicevo si inseriscono gli effetti dei cambiamenti climatici, il surriscaldamento globale ha modificato il regime delle precipitazioni: cadono più millimetri di pioggia in meno tempo, con fenomeni meteorologici violenti, estremi; che spesso hanno un potenziale distruttivo, provocando inondazioni o colate rapide di fango e detriti, come è accaduto di recente nell’isola di Ischia».
— Negli ultimi decenni frane e inondazioni hanno causato migliaia di morti e feriti e hanno lasciato famiglie senzatetto. Eventi con impatto negativo sulla nostra economia e miliardi di euro di danni ogni anno. Che fare?
«Interventi strutturali che mirino a difendere il territorio e interventi non strutturali per monitoraggio e manutenzione. Obiettivo: prevenzione del dissesto e mitigazione del rischio, ma i fondi stanziati sono insufficienti e di solito si tampona solo l’emergenza. Si dovrebbero anche promuovere buone pratiche agricole e forestali, atte a ridurre i fenomeni franosi. In realtà si investe davvero poco per ridurre i rischi e per la messa in sicurezza dei territori. Inoltre, c’è un problema di tempi: dal finanziamento di un intervento al collaudo occorrono in media sette anni. Manca un intervento sistematico, costante, pianificato a livello nazionale. Ogni volta che c’è un disastro è come se fosse la prima volta. Tra le regioni più colpite negli ultimi anni ci sono Emilia-Romagna, Campania, Toscana, Liguria e Sicilia».
— Giusto, prevenzione. Invece si va avanti con la politica del rattoppo e credo che solo una piccola parte dei danni sia stata risarcita alle regioni colpite.
«Dati alla mano, è innegabile che i fondi messi a disposizione dallo Stato, anche se hanno avuto un incremento, sono ben al di sotto delle necessità. Considerando i fenomeni provocati dai cambiamenti climatici è urgente intervenire, la prevenzione può ridurre sia il rischio che la distruttività degli eventi».
— Salvando anche vite umane e abbassando i costi economici dei disastri. È così?
«Certamente».
— Lei è uno dei caschi verdi italiani. Di che si tratta?
«Sì, faccio parte della task force dei caschi verdi voluta dall’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa per la salvaguardia dei patrimoni naturali riconosciuti dall’Unesco. Progetto partito ufficialmente nel 2018 in collaborazione con l’Ispra di cui faccio parte. L’obiettivo in generale è quello di dare sostegno alla gestione e alla difesa delle aree naturali del nostro territorio, ma anche quello di portare i caschi verdi in altri Paesi».
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