Nonostante l’ultima gaffe del capo della Casa Bianca sul presidente cinese − «è un dittatore» − l’incontro in California del 15 novembre tra i rappresentanti dei due imperi in competizione ha prodotto qualche risultato promettente. Ad esempio sullo «sviluppo delle energie rinnovabili al 2030 nelle rispettive economie» per portarle «al livello necessario ad accelerare la sostituzione di carbone, petrolio e a gas». Alla vigilia della Cop28 che si aprirà domani a Dubai, è un passo avanti rilevante per «triplicare la capacità mondiale di energie rinnovabili entro il decennio», benché manchino date precise per l’eliminazione dei fossili da parte dei due massimi emettitori mondiali di Co2 di fronte all’aggravarsi incombente della crisi climatica
◆ L’analisi di MASSIMO SCALIA
► “La Cina che si compra l’America”, era un’osservazione ironica che Giorgio Ruffolo poneva, in un suo breve articolo, all’interno di un tema generale assai poco rassicurante: “Il nuovo squilibrio economico” (“Repubblica”, 1.11.2007). Non c’entrava la bolla finanziaria che sarebbe esplosa negli Usa nelle settimane successive e, che di lì a un anno, avrebbe portato al crollo da 600 miliardi di dollari della Lehman & Brothers. La battuta di Ruffolo, che non poteva certo prevedere l’imminente catastrofe, derivava dalla rapida analisi del rapporto economico commerciale tra Usa e Cina, di cui forniva alcuni elementi essenziali.
En passant, le previsioni avanzate nel 2018 dal Fmi (International Monetary Fund’s World Economic Outlook 2018) si sono rivelate incredibilmente esatte: nessuna delle aree geo-economiche del mondo ha recuperato i tassi di crescita del Pil (Gdp) anteriori all’esplosione della crisi finanziaria (2008). In particolare, le economie dei Paesi Avanzati e dell’Eurozona erano accreditate di un ritmo di crescita (1,5%) pari alla metà di quello precrisi (2007). E così è stato (vedi tabella).
Il crollo economico mondiale dovuto al Covid è stato riassorbito soprattutto per gli enormi stanziamenti pubblici decisi sia negli Stati Uniti – “la fine del neoliberismo”, aveva proclamato il Financial Times del 4 aprile 2020 – che nella Ue; e quindi, rispetto alle previsioni è come il crollo del Pil nel biennio 2020-2021. Basta confrontare le due “curve” del 2017 ante-Covid (Fig 1), e del 2023 post-Covid (Fig 2).
Le previsioni, sostanzialmente “piatte” da qui a tutto il 2025, rappresentano un andamento e uno scenario compatibili con gli impegni enormi da affrontare con l’aggravarsi continuo e incombente della crisi climatica; e hanno alle spalle una parziale correzione di quello squilibrio economico denunciato tre lustri fa da Ruffolo: non solo la Cina non possiede più, come allora, il 20% dei beni finanziari e degli asset americani, ma, in generale, si è attenuato l’enorme flusso di risparmio che da tutto il mondo arrivava nel Paese più indebitato del mondo, gli Stati Uniti, creando il famoso “global saving glut”. E lo sdegno morale di Ruffolo.
È indubbio che per molti anni gli Usa hanno favorito, indirettamente ma anche direttamente, lo sviluppo della Cina – basterebbe guardare all’evoluzione dei consumi energetici, e della corrispettiva crescita industriale, del colosso orientale a partire dai primi anni di questo secolo – ma ora, da tempo, questa politica è venuta cambiando, man mano che la Repubblica popolare assumeva il ruolo di grande contendente dell’impero americano. A San Francisco, nell’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping del 15 novembre scorso, sembra evaporata l’ipotesi del “terzo fronte”, dopo quelli aperti in Ucraina e in Israele. Certo, si è ben lungi dalla risoluzione di tutti gli elementi di contenzioso tra i due grandi Paesi, ma molti osservatori politici hanno notato che “è cambiato il tono”. Questo “tono” diverso ha consentito una ripresa dei colloqui politico-militari, che dovrebbe portare alla prevenzione di conflitti improvvisi nel Mar della Cina (il “terzo fronte”); e un accordo sul controllo del fentanyl, i cui componenti chimici sono prodotti in Cina, arrivano in Messico e seminano morte negli Usa (150 overdose al giorno). Si è anche vociferato di un accordo per limitare l’uso militare dell’intelligenza artificiale senza una supervisione umana.
A voce alta, invece, e nero su bianco, l’impegno «a riprendere il dialogo bilaterale sulle politiche e le strategie energetiche» per spingere a «triplicare la capacità mondiale di energie rinnovabili entro il 2030». L’impegno, sottoscritto dopo quattro giorni di colloqui in California dagli inviati speciali per il Clima di Washington e Pechino, rispettivamente John Kerry e Xie Zhenhua, ricalca in realtà quanto deciso lo scorso settembre in India dal G20 (vedi Quale Energia 11/9). Per quanto riguarda la fuoriuscita dai combustibili fossili, la dichiarazione afferma che i due Paesi «intendono spingere lo sviluppo delle energie rinnovabili al 2030 nelle rispettive economie al livello necessario ad accelerare la sostituzione della generazione a carbone, a petrolio e a gas e di conseguenza anticipare il picco e quindi una riduzione delle emissioni del settore elettrico in questo decennio critico». Certo, non c’è nessuna data precisa per l’eliminazione dei fossili, in particolare del carbone, da parte dei due massimi emettitori mondiali di Co2, ciò nonostante, questo appare il frutto più importante per tutto il mondo di questa nuova “entente cordiale” tra i due imperi. Supera di gran lunga i passati scontri e le perniciose resistenze, sembra addirittura voler sottrarre la leadership sulle politiche per il clima all’Unione Europea ed è senz’altro il migliore auspicio per la Cop28 sul clima, che si terrà a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre prossimi. © RIPRODUZIONE RISERVATA