Anziché una grande occasione per riflettere sul ruolo che il nostro Paese vuole assumere per diffondere l’idea che migliorare le condizioni di vita delle donne significa contribuire ad evitare il naufragio delle civiltà, anche quest’anno dobbiamo fare i conti ancora con gaffe e cliché di chi ci governa. Da quelle xenofobe del ministro dell’Istruzione Valditara agli inquietanti ritornelli della premier, quel suo ripetere “come madre e come donna” che accompagna ogni argomentazione debole. Istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è stata voluta significativamente in coincidenza con l’anniversario dell’assassinio delle sorelle Mirabal, tre coraggiose donne rivoluzionarie, massacrate nel 1960. Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa furono uccise brutalmente dal regime del dittatore Trujillo, sanguinoso dittatore della Repubblica Dominicana per trent’anni
◆ L’analisi di ANNALISA ADAMO AYMONE
► «Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale». Con questa frase il ministro italiano dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha di fatto messo uno dei più aberranti reati contro le donne al servizio della più bieca propaganda politica del suo partito. Non solo per giustificare l’accanimento contro i migranti del governo, sfociato nei trasferimenti in Albania, ma altresì per esacerbare il conflitto sociale foriero di consenso e voti per le destre. A moltiplicare il male insito in una tale forma di rappresentazione è stata la difesa d’ufficio in favore del ministro fatta dalla premier Giorgia Meloni secondo quel suo inquietante cliché del “come madre e come donna” che accompagna ogni argomentazione debole. Tutto questo in occasione della presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin nata, grazie all’impegno e alle forze del padre Gino e dei fratelli, per promuovere progetti contro la violenza sulle donne.
Se la manipolazione argomentativa del ministro ha messo in luce quanto sia facile per certa politica ricorrere alle più pericolose banalità per motivare l’odio del popolo, si devono trarre alcune considerazioni di non poco conto. La prima, la cui trattazione richiederebbe un intervento a sé ma a cui farò riferimento solo brevemente, riguarda i pregiudizi che ancora vengono riservati agli immigrati anche da alcune nostre alte cariche dello Stato, laddove dal 1861 circa 30 milioni di italiani hanno cercato fortuna all’estero e quasi sempre con la sola valigia di cartone in mano e le tasche vuote, ricevendo molto spesso gravi trattamenti intolleranti e discriminatori. Infatti, secondo quanto fatto emergere da un reportage molto approfondito sul tema di ‘Focus Storia’, quando gli italiani arrivavano ad Ellis Island a New York sui documenti rilasciati agli italiani, accanto alla scritta white (bianco), che indicava il colore della pelle, a volte c’era un punto interrogativo, indice del razzismo che hanno subìto gli italiani da una parte della società americana. In realtà, negli Stati Uniti che da poco avevano abolito la schiavitù si diceva che gli italiani non erano considerati bianchi, «ma nemmeno palesemente negri». In Australia – altra destinazione privilegiata dagli immigrati italiani – erano definiti «l’invasione delle pelle oliva». E poi ancora «una razza inferiore» o una «stirpe di assassini, anarchici e mafiosi». E il presidente Usa Richard Nixon intercettato nel 1973 fu il più chiaro di tutti. Disse: «Non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Il guaio è che non si riesce a trovarne uno che sia onesto».
Trattandosi del pregiudizio che accompagna la diversità, quanto fin qui detto è solo apparentemente una digressione sul tema principale della violenza sulle donne, nonché della celebrazione della giornata internazionale per la sua eliminazione definitiva dalle nostre società moderne ed avanzate, perché la lotta ai crimini di genere riguarda principalmente i convincimenti culturali. Non basta inasprire le pene ed enucleare nuove forme di reato delegando tutto ciò che gira intorno alla violenza di genere all’aspetto giudiziario e punitivo per contrastare un fenomeno sociale che ha le sue radici in pregiudizi molto profondi che richiederebbero una rivoluzione culturale, quindi d’opinione, in merito. La diffusione di messaggi negazionistici costituisce di fatto un inaccettabile sabotaggio al raggiungimento degli scopi che ci si propone nel contrasto a tutte le forme di violenza contro le donne che secondo studi autorevoli si registrano nel nostro paese pressoché esclusivamente in ambito familiare/affettivo.
Secondo le stesse pagine ministeriali Salute.gov, su 106 donne uccise nel 2023 ben 87 sono morte in ambito familiare/affettivo (nel 2022 le donne uccise furono, invece, 109 di cui 91 sempre in ambito familiare/affettivo). Dal 1 gennaio al 7 aprile 2024 ci sono state 28 donne uccise di cui 26 soppresse in ambito familiare/affettivo e di queste ben 16 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Nei due trimestri successivi del 2024 rimane pressoché costante la percentuale di donne (74,3%) che indica l’ambiente domestico come il luogo della violenza. Se tanti passi avanti sono stati compiuti soprattutto grazie al recepimento nel nostro ordinamento di quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul al fine di contrastare le violenze sulle donne, declinate nel trattato in 4 tipologie (fisiche, sessuali, psicologiche ed economiche), tanto ancora bisogna fare soprattutto al fine di un riordino delle varie norme in materia e di una formazione diffusa finalizzata ad un cambio di passo a livello sociale e culturale. Inoltre sarebbe molto importante che la diplomazia e la politica si impegnassero per sensibilizzare gli altri Paesi firmatari del trattato a dare piena attuazione allo stesso e a riaprire un dialogo con quei Paesi che hanno protestato l’accordo e che ancora non hanno sottoscritto.
Era l’11 maggio 2011 quando la Convenzione, adottata dal Comitato del Consiglio d’Europa il 7 aprile, fu aperta alla firma proprio ad Istanbul, avviando un processo di adesione durato molti anni. Entrata in vigore il 1° agosto 2014, la Turchia fu il primo paese a sottoscriverla, precisamente il 12 marzo 2012, per poi procedere ad una clamorosa revoca della sua partecipazione, il 21 marzo del 2021, in seguito ad un decreto del presidente Erdogan, con ciò confermando che i temi trattati dalla Convezione restano estremamente controversi e costituiscono ancora un terreno minato per alcuni paesi, non solo quelli che ancora non hanno aderito ma anche quelli che pur avendo aderito non hanno mai veramente recepito all’interno dei loro ordinamenti nazionali i principi e gli obblighi del trattato. A distanza di oltre un decennio dall’approvazione, la Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale a creare un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, resta uno strumento di grande valore giuridico, sociale, politico e culturale.
La violenza contro le donne è un fenomeno che non riguarda solo alcuni paesi ma riguarda tutto il mondo e tutte le nazioni in modo strutturale, senza possibilità che venga individuato un paese che ne risulti totalmente immune. Le forme che questa violenza può assumere sono svariate e spesso avvengono nel silenzio e nell’indifferenza generale, all’interno di società troppo impegnate a costruire il futuro quando in realtà a molte donne viene negata la dignità del tempo presente. Ed è così che su scala mondiale alle violenze compiute nei paesi più avanzati sul piano dei diritti umani si sommano quelle dei paesi più arretrati che arrivano ad essere violenze di Stato, e di fronte alle quali opporsi significa perdere la vita. La lotta contro il velo, considerata dalle autorità iraniane come «un virus« e «una malattia sociale», è stata fatta rientrare addirittura nella categoria della «depravazione sessuale», e la reazione delle autorità iraniane alle istanze di cambiamento avanzate sono state più che feroci. Se dopo la morte di Mahsa Amini, avvenuta in Iran nel settembre 2022, il motto ‘Donna, vita e libertà’ è stato gridato nelle strade di tutto l’Iran, successivamente è diventato un urlo a livello mondiale. Alla solidarietà ed al sostegno di donne e uomini di tutto il mondo si aggiunga che il Parlamento europeo ha conferito a Mahsa Amini e al movimento ‘Donna, vita e libertà’ il Premio Sakharov 2023, riconoscimento conferito per l’impegno in difesa dei diritti umani e delle libertà individuali, che il governo iraniano ha solertemente provveduto a confiscare al suo arrivo a Teheran.
Non va dimenticato che gli stupri di massa e le violenze sessuali nei conflitti armati sono stati, e tuttora continuano ad essere, una potente e strategica arma di guerra per terrorizzare e distruggere il nemico – o l’‘etnia’ considerata ‘nemica’ – violando, umiliando, annientando ‘le donne del nemico’ e la comunità di appartenenza. Servirebbero molte pagine per ripercorre i fatti aberranti delle dominazioni coloniali, dal genocidio armeno ai fatti accaduti nell’ex Jugoslavia, in Bosnia, in Rwanda, in Palestina, in Somalia, in Nigeria, in India, in Birmania, in Darfur e nelle terre curde occupate dall’Isis, in America Latina, e per parlare degli ‘stupri di pace’ ad opera delle cosiddette forze di peacekeeping. Si capisce perchè l’istituzione di questa Giornata, avvenuta nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è stata voluta significativamente in coincidenza con l’anniversario dell’assassinio delle sorelle Mirabal, tre coraggiose donne rivoluzionarie, che furono massacrate nel 1960. Patria Mercedes, María Argentina Minerva e Antonia María Teresa furono uccise brutalmente dal regime del dittatore Trujillo. Le tre sorelle, che costituirono insieme ai loro mariti il “Movimento 14 giugno” per opporsi alla sanguinosa dittatura di Trujillo portata avanti per trent’anni nella Repubblica Dominicana, furono fatte uccidere da sicari che dopo averle costrette a scendere dall’auto per raggiungere un luogo appartato in una piantagione di canna da zucchero le picchiarono e seviziarono fino alla morte.
Più che mai in un momento come questo, di guerre e di conflitti etnici, ecco quindi che le celebrazioni legate alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne non ha il valore dell’inutile una tantum, come purtroppo anche la presidente Giorgia Meloni ha fatto intendere, ma quello di una grande occasione per fare il punto sullo stato di avanzamento raggiunto, sugli obiettivi futuri e sul ruolo che il nostro Paese vuole assumere per diffondere l’idea che migliorare le condizioni di vita delle donne significa contribuire ad evitare il naufragio delle civiltà. © RIPRODUZIONE RISERVATA