A un anno e mezzo dalla scadenza dei termini per spendere oltre 200 miliardi dell’Unione Europea per il New Green Deal, il piatto piange su tutti i tavoli su cui l’Italia avrebbe potuto svoltare. Il governo di destra ha allungato le mani sui fondi europei mettendo nel mirino il piano Green Deal che ne aveva motivato la loro spesa. Miopia politica o incapacità programmatica? Un po’ l’una e un poi l’altra, ma pesano i paraocchi della destra per negare la realtà del Paese, le sue urgenze e necessità
◆ L’intervento di ALESSIO LATTUCA
► È imperdonabile ciò che è accaduto. È davvero imperdonabile non avere colto appieno l’occasione − significa essere al punto di non ritorno − offerta dall’Ue con il maxi-piano New Green Deal da oltre 200 miliardi di euro. Al riguardo occorre ricordare che al fine di raggiungere gli obiettivi previsti per il 2050, data fissata per le emissioni zero, il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) destina il 37% delle risorse a interventi ambientali e sociali. Si tratta di un piano avanzatissimo che permette interventi di decarbonizzazione, riassetto idrogeologico, restauro e miglioramento delle infrastrutture esistenti, cambio dei modelli di sfruttamento del suolo, revisione delle fonti di energia, crescita, parità di genere, politiche occupazionali e lotta alla disoccupazione. Tuttavia, risulta incredibile il comportamento adottato da chi ha responsabilità politica: un vero “stigma sociale” che resterà impresso nella mente di chi rifletterà sull’accaduto. Difatti, nonostante ciò che è successo alla Marmolada, in Emilia Romagna, in Liguria, in Sicilia e nelle Marche spazzate da eventi estremi senza precedenti con esiti che registrano un pesante tributo di vite umane, è inverosimile che il tema del dissesto idrogeologico e del riscaldamento climatico non sia stato posto al centro del dibattito.
Cos’altro deve succedere per mettere al primo posto il Climate change, perché il ceto politico si accorga che gli eventi estremi – la cui portata non si era manifestata mai così chiaramente – siano sempre più frequenti. Il conto economico delle calamità naturali cresce esponenzialmente e comporterà spese per centinaia di miliardi nel prossimo decennio. Una questione che dovrebbe suggerire di accelerare gli interventi di prevenzione, sulla quale è calata invece una coltre di silenzio. Si tratta di elementi sensibili che offrono all’Europa un modello di Paese in pieno caos e in una condizione di ingovernabilità che, ovviamente, spaventa i partners e gli investitori. E amplifica il rischio economico di un Paese già debole tra i Paesi forti e produce paura per la stabilità. In definitiva, mette in discussione il piano di resilienza approvato dall’Ue.
L’incertezza del posizionamento dell’Italia nello scacchiere internazionale ed europeo è davvero inquietante. Non prevede nulla di buono. Il voto della Lega e di Fratelli d’Italia sulla posizione dell’Ungheria di Orban rispetto ai diritti e ai rapporti con l’Ue è paradigmatico di ciò che potrà accedere in un momento così difficile per la geopolitica. La risposta a suo tempo rilasciata dalla Von der Layen, alle assertive affermazioni della nostra Presidente del consiglio (“la pacchia è finita”) è risultata fragile. Ma è presumibile che la presidente della Commissione si riferisse alle regole in via di definizione sul Patto di Stabilità e, ovviamente, alle problematiche connesse al debito pubblico in particolare all’incombente pericolo che da lì a poco sarebbe derivato dalla fine del “quantitative easing” della Bce. Ed è probabile che la Bce abbia varato il programma Tpi (che le consente di intervenire per fronteggiare gli aumenti dello spread), per confermare i timori che l’Ue ripone sull’affidabilità dell’Italia. Occorre tuttavia tenere presente che non esiste alcun automatismo nell’attivazione del Tpi: è il Consiglio della Bce che adotterà una decisione presa in funzione di tante circostanze, fra le quali l’aderenza del Paese alle prescrizioni delle istituzioni europee.
In merito poi al piano di resilienza, risulta interessante (alla luce dei risultati) approfondire metodo e motivazioni che hanno indotto il governo ad assumere le frettolose deliberazioni (in un Consiglio dei ministri di soli 20 minuti) che hanno azzerato oltre due mesi di lavoro del Parlamento e delle Commissioni, su riforme come la delega fiscale, la riforma della giustizia, la riforma dell’Irpef e del catasto e di tutte le riforme previste come condizionalità dall’Ue per la corretta applicazioni del Pnrr. Ed è oltremodo incomprensibile che tutto ciò accada in Paese precipitato in una gravissima ingiustizia sociale, che registra dati allarmanti: oltre il 20% della popolazione è in una pericolosa condizione di povertà assoluta e di povertà relativa. Al riguardo, occorre ricordare che il decreto legge n. 4 del 2019, istitutivo del Reddito e della Pensione di cittadinanza, ha assorbito il Reddito di Inclusione (Rei), la misura unica a livello nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, che, a decorrere dal mese di aprile 2019 non è stata più riconosciuta, né rinnovata. Il Rei era finanziato nei limiti delle risorse del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale (Fondo povertà), istituito dalla legge di stabilità 2016.
Gran parte delle risorse del Fondo povertà sono confluite nell’ambito del nuovo Fondo per il reddito di cittadinanza, riducendo, conseguentemente, a decorrere dal 2019, le risorse del Fondo povertà, nel quale residua la quota destinata al rafforzamento e alla programmazione degli interventi e dei servizi sociali. In un quadro così il Pnrr sarebbe stata l’occasione giusta per affrontare il problema della povertà in modo articolato, posto che l’obiettivo 1 comprenda, oltre allo sradicamento della povertà estrema, anche un sotto-obiettivo riguardante la povertà relativa, che si rifà alle definizioni nazionali. Appunto perciò sarebbe stato salutare e giusto, che il discorso politico fosse rivolto ad individuare soluzioni credibili per garantire le persone ad uscire dalla condizione di povertà e per fare sì che non vi ritornino. Tutti elementi complessi che richiedono una classe dirigente competente giacché un obiettivo tanto impegnativo prevede anche misure di consolidamento della capacità di resistenza, che comprendano l’istituzione di sistemi di protezione sociale. Nulla di tutto ciò è stato oggetto del dibattito pubblico e del percorso istituzionale che volge al termine. © RIPRODUZIONE RISERVATA