Dopo due film fuori patria, Le verità (2019) girato in Francia e Broker (2022) in Corea, una delle voci più importanti della cinematografia orientale, il regista giapponese Kore-eda Hirokazu, torna con una commovente storia d’amicizia che presenta tutta la gioia e il dolore dell’infanzia. Non si può non lasciarsi ammaliare e commuovere da una sublime ode alla diversità nelle dolci note del pianoforte di Ryūichi Sakamoto
◆ La recensione di GIULIA FAZIO
► Kore-eda Hirokazu torna in sala con una dramma familiare complesso e di assoluta bellezza. Uscito nelle sale il 22 agosto, è stato presentato in anteprima a maggio 2023 al Festival di Cannes, dove si è aggiudicato la miglior sceneggiatura a Yuji Sakamoto. La poesia visiva e la profonda sensibilità registica vengono accompagnate dall’ultimo lavoro del compositore Ryūichi Sakamoto, al quale il lungometraggio è stato dedicato. La prima scena si apre su una palazzina in fiamme, immagine che rappresenta l’ardere della passione e del peccato, sede di un bar per adulti che ricorrerà nella storia, è un luogo che si pone in netto contrasto con il pudore della società giapponese, per la quale le passioni ritenute “mostruose” vengono additate e i colpevoli di tali “anomalie” alienati. Quel luogo verrà mostrato da altri punti di vista, e l’incendio, così come il temporale, saranno eventi importanti nella frammentata e ambivalente narrazione.
Saori (Andō Sakura) e il figlio Minato (Kurokawa Soya) osservano le fiamme divampare nel cielo della sera. Sin da subito il loro appare come un legame quasi fraterno, e l’assenza della figura paterna è accentuata dai piccoli dettagli. Nei giorni seguenti Minato, ragazzo taciturno e timido, torna a casa da scuola particolarmente scosso, accusando il professore Hori (Nagayama Eita) di avergli rivolto insulti inappropriati. Saori si reca nell’ufficio della preside esigendo spiegazioni sull’accaduto, ma ottiene solo delle scuse di circostanza. L’episodio si ripete, e Saori si scontra con la fredda formalità dell’istituzione scolastica, ma il professor Hori, stanco di essere accusato, le rivela che il figlio bullizza un suo compagno di classe: il sensibile ed esuberante Yori.
La narrazione, strutturata in tre macro-capitoli, crea un caleidoscopio di emozioni a contrasto. Come in Rashomon (1950) di Akira Kurosawa, le diverse versioni di una storia portano a galla le molteplici verità. Distaccandosi dal maestro e consegnando un racconto che non si concentra sulla mera inerenza dei fatti alla realtà, va oltre, immergendo lo spettatore nell’emotività dei singoli personaggi, creando così luoghi interiori alternativi. Ogni punto di vista è una verità opinabile e, nonostante ciò, resta la verità personale di chi vive un determinato evento. Minato e Yori sono le ombre colorate e leggere dell’adolescenza che cede il passo all’età adulta.
Un racconto che incamera temi rilevanti per la società giapponese contemporanea sui quali il regista ha voluto porre l’attenzione: bullismo, famiglie disfunzionali, omosessualità e il peso del giudizio sociale. L’essere ritenuti diversi, dunque mostruosi, è la condanna stabilità dalla società, Hirokazu assolve i suoi personaggi, mostrandone le fragilità. I due ragazzi cercano un loro rifugio dalla crudeltà del mondo, dall’oppressivo ambiente familiare e scolastico, creando un’isola felice: un vagone pieno di festoni e giochi in un binario abbandonato immerso nel bosco, dove poter essere se stessi. L’opera si chiude lasciando sgomento e speranza, in un mistero che ognuno risolverà nel proprio animo. © RIPRODUZIONE RISERVATA