La magistratura italiana da qualche anno a questa parte sembra avere rinunciato agli antichi e collaudati metodi di indagine, e preferisce affidarsi alle impossibili certezze assolute di una scienza che per sua natura si presta a troppe interpretazioni contrastanti. Sulle impronte trovate in casa della vittima i periti hanno fatto anche di peggio. Per qualcuno c’era del sangue, per altri no, e nel dubbio i magistrati che hanno riaperto le indagini sul caso non hanno trovato di meglio che ordinare nuovi rilievi, nuovi sopralluoghi, e perfino uno studio sul contenuto di un sacchetto dell’immondizia trovato nella casa del delitto e conservato per diciotto anni tra i reperti. L’irrompere sulla scena di comprimari come le cugine della vittima era in qualche modo da mettere nel conto. Forse la decisione di far dragare trecento metri di canale alla ricerca dell’arma di un delitto avvenuto diciotto anni prima poteva avere un senso. Ma perché sono state convocate le telecamere per le dirette televisive? Comunque vada, Garlasco ci ha insegnato molto sui limiti della scienza forense e sulla pressione mediatica sull’amministrazione della giustizia

◆ Il commento di BATTISTA GARDONCINI *
► Lo so che nel mondo accadono fatti ben più importanti e gravi di cui preoccuparsi, come le guerre in Ucraina e in Medio Oriente. E tuttavia, come immagino molti altri, non ho resistito alla tentazione di leggere alcuni degli innumerevoli articoli che la nostra stampa ha dedicato ai recenti sviluppi giudiziari del caso di Garlasco. E di scriverne qui. Non ho nuovi particolari da rivelare, e penso che la mia opinione sulla colpevolezza di quell’antipatico giovanotto condannato in via definitiva per l’omicidio della sua fidanzata non interessi a nessuno. Quello che mi preme sottolineare è lo stato pietoso della magistratura italiana, che da qualche anno a questa parte sembra avere rinunciato agli antichi e collaudati metodi di indagine, e preferisce affidarsi alle impossibili certezze assolute di una scienza che per sua natura si presta a troppe interpretazioni contrastanti.

Non sempre gli assassini ci usano la cortesia di lasciare tracce inequivocabili sul luogo del delitto. E non sempre i tecnici avvolti nelle loro asettiche tute bianche ottengono risultati migliori dei vecchi segugi capaci di scavare nei segreti delle famiglie, interrogare i testimoni, mettere in difficoltà i sospetti. Lo scontro di periti che ha tenuto banco per giorni sui nostri giornali è da questo punto di vista emblematico. Alcuni hanno espresso la granitica convinzione che il Dna trovato sotto le unghie della vittima appartenesse a una persona diversa dal fidanzato. Altri hanno spiegato che ce n’era troppo poco per consentire una identificazione certa. Altri ancora hanno parlato di contaminazioni. Sulle impronte trovate in casa della vittima i periti hanno fatto anche di peggio. Per qualcuno c’era del sangue, per altri no, e nel dubbio i magistrati che hanno riaperto le indagini sul caso non hanno trovato di meglio che ordinare nuovi rilievi, nuovi sopralluoghi, e perfino uno studio sul contenuto di un sacchetto dell’immondizia trovato nella casa del delitto e conservato per diciotto anni tra i reperti. In muffa veritas?

Che cosa cercano i magistrati di Pavia che hanno deciso di riaprire il caso, e che cosa sperano di trovare per dare sostanza ai loro sospetti su una terza persona, che i loro predecessori avevano peraltro ritenuto completamente estranea ai fatti? Al momento non lo sappiamo. C’è soltanto da sperare che lo facciano davvero per il nobile scopo di rendere giustizia a un innocente condannato in via definitiva, e non per qualche rissa corporativa tra colleghi. Certo è che lo stillicidio di rivelazioni che alimentano il gossip quotidiano sul caso è davvero fastidioso. L’irrompere sulla scena di comprimari come le cugine della vittima, le stesse che subito dopo il delitto erano andate a farsi belle in televisione esibendo le foto ritoccate della congiunta, era in una certa misura da mettere nel conto. Del protagonismo degli inquirenti, invece, si poteva fare tranquillamente a meno. Forse la decisione di far dragare trecento metri di canale alla ricerca dell’arma di un delitto avvenuto diciotto anni prima poteva avere un senso. Ma ne ha molto meno quando si scopre che per l’occasione, attorno a quel canale già dragato all’epoca dei fatti, erano state convocate le telecamere per le dirette televisive.
Nella storia delle indagini giudiziarie italiane il caso di Garlasco è stato uno dei primi integralmente basato su perizie scientifiche in teoria inoppugnabili, che nella realtà sono state diversamente valutate dai tribunali. Alla condanna dell’unico imputato si è arrivati dopo due assoluzioni in primo e secondo grado, una revisione del processo e una conferma in cassazione, ma non è di poco conto il fatto che la famiglia della vittima sia da sempre convinta della sua colpevolezza, e che ritenga del tutto ingiustificato il coinvolgimento di un’altra persona. Vedremo nei prossimi giorni quello che accadrà. Fin d’ora, però, si può dire che, comunque finisca, Garlasco ci ha insegnato molto non soltanto sui limiti della scienza forense, ma anche sui guasti provocati dalla pressione mediatica sulla corretta amministrazione della giustizia. © RIPRODUZIONE RISERVATA
(*) L’autore dirige oltreilponte.org