
Il regista inglese, spalleggiato dallo sceneggiatore Alex Garland, punta anche stavolta sulla sperimentazione, girando quasi tutto il film con gli iPhone. E i risultati sono sorprendenti. L’Inghilterra è ancora sconvolta da una epidemia di rabbia, come in “Ventotto giorni dopo”, sceneggiato sempre da Alex Garland e uscito nel 2002. Oggi l’Inghilterra non è riuscita a contenere l’epidemia, ed è completamente isolata dal resto del mondo. Un gruppo di superstiti vive su una piccola isola dove vige una economia agricola di sussistenza. Chi si avventura sulla terraferma, alla ricerca di materie prime e rifornimenti, scopre che alcuni dei contagiati sono più alti, robusti e aggressivi di altri, e sono riusciti a darsi una rudimentale forma di organizzazione sociale
◆ La recensione di BATTISTA GARDONCINI *
► Non ci sono soltanto l’ottimo “Trainspotting” e gli Oscar vinti con l’ampiamente sopravvalutato “The Millionaire” nella carriera del regista inglese Danny Boyle. Un posto di rilievo merita l’horror apocalittico “Ventotto giorni dopo”, sceneggiato da Alex Garland e uscito nel 2002. Un piccolo gioiello girato con telecamere semiprofessionali, dove un ragazzo in coma dopo un incidente stradale si risveglia in una Inghilterra sconvolta da una epidemia di rabbia, e deve difendersi non soltanto da orde di contagiati assetati di sangue, ma anche da gruppi di sbandati e militari impazziti. La forza del film non stava tanto nella trama, scontatissima, quanto nei risvolti morali e nell’evidente intento di critica sociale, che erano completamente assenti in un dozzinale sequel uscito cinque anni dopo senza il coinvolgimento di Boyle.

Con “Ventotto anni dopo”, da pochi giorni nelle sale, la coppia Boyle e Garland si è ricostituita e ha ancora una volta puntato sulla sperimentazione, girando quasi tutto il film con gli iPhone. I risultati sono sorprendenti. L’Inghilterra non è riuscita a contenere l’epidemia, ed è completamente isolata dal resto del mondo. Un gruppo di superstiti vive su una piccola isola dove vige una economia agricola di sussistenza. I più coraggiosi si avventurano sulla terraferma alla ricerca di materie prime e rifornimenti, e uccidono senza pietà tutti i contagiati che incontrano, rallentati dalla malattia, ma sempre pericolosi. In una di queste spedizioni un uomo porta il figlio dodicenne, in una sorta di prova di iniziazione. Le cose, però, non vanno come previsto. Alcuni dei contagiati sono più alti, robusti e aggressivi di altri, e sono riusciti a darsi una rudimentale forma di organizzazione sociale.
“Ventotto anni dopo”, concepito come la prima parte di una trilogia, è un horror e le scene truculente non mancano. Ma è anche un film intelligente che va oltre gli stereotipi del genere. © RIPRODUZIONE RISERVATA
(*) L’autore dirige oltreilponte.org