Le modifiche proposte dai senatori leghisti degradano il parere oggi vincolante della Sovrintendenza al paesaggio, in radicale e insanabile contrasto con tutta la tradizione italiana in materia, sia quella liberale che quella repubblicana. Una compromissione del valore costituzionale del paesaggio, assurto a principio fondamentale della Repubblica attraverso l’art. 9 della nostra Costituzione. L’intervento delle Sovrintendenze finora ha sempre avuto un’efficacia vincolante e sovraordinata rispetto alle scelte contenute negli strumenti urbanistici. Le modifiche proposte ribaltano il rapporto tra urbanistica e paesaggio, assicurando all’urbanistica la piena prevalenza sui valori culturali espressi dal territorio. Predisposta la distruzione finale della più importante opera culturale realizzata dalla civiltà umana nel corso della sua storia: il libro del paesaggio

◆ L’analisi di CARLO IANNELLO

► L’8 aprile 2025 sono stato in audizione al Senato (davanti alle Commissioni settima e ottava) per conto di Italia Nostra, per rappresentare le motivazioni che portano a respingere radicalmente il disegno di legge n. 1372 di delega al governo per la revisione del Codice del paesaggio a firma di Roberto Marti confermato da altri otto senatori della Lega Salvini Premier. Una proposta legislativa che si propone di introdurre il silenzio assenso per le autorizzazioni paesaggistiche e di degradare il parere della Sovrintendenza a non vincolante. Ripropongo di seguito i concetti espressi in tale sede, con alcune integrazioni.
Il disegno di legge 1372 propone l’introduzione di alcune modifiche al vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio che rappresenterebbero un radicale stravolgimento di tutta la tradizione italiana di tutela e si porrebbero, pertanto, in radicale e insanabile contrasto con l’art. 9 della Costituzione. A partire dalla legge Croce del 1922, passando per le leggi Bottai del 1939, fino ad arrivare all’articolo 9 della Costituzione e all’attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, l’intervento delle sovrintendenze ha sempre avuto un’efficacia vincolante e sovraordinata rispetto alle scelte contenute negli strumenti urbanistici. Questo per un semplice motivo. La tutela della cultura è sempre stata interpretata come prioritaria rispetto agli interessi di carattere economico interpretati dall’urbanistica.

La ragione è chiara. Il paesaggio non è altro che l’aspetto visibile del territorio. Per utilizzare le parole di Benedetto Croce, opportunamente riprese dall’art. 131 del vigente codice dei beni culturali e del paesaggio, «la rappresentazione materiale e visibile della Patria» [nota 1]. La tutela dell’aspetto percepibile della Nazione ha un carattere vincolato. Le scelte urbanistiche, invece, possono attuarsi in una pluralità di forme, alcune delle quali sono compatibili con il rispetto del paesaggio, altre no. L’unica possibilità di conciliare i distinti interessi è, dunque, dare la prevalenza alla disciplina paesistica che, si ribadisce, tutelando l’aspetto visibile del territorio, ha un compito vincolato che potrebbe essere del tutto frustrato da determinate scelte urbanistiche. Così fa infatti il vigente codice dei beni culturali e del paesaggio, che mette a sistema sia la tradizione liberale in materia, che poi quella repubblicana.
Le esigenze urbanistiche, invece, sono per loro natura sono flessibili, non avendo il vincolo rappresentato dalla tutela dell’aspetto del territorio, cioè del «volto della patria» [nota 1 a fondo pagina], come spesso romanticamente si dice: la loro soddisfazione va pertanto ricercata attraverso la realizzazione di quelle soluzioni compatibili con il valore paesaggistico. La prevalenza dell’interesse paesaggistico, assicurata tradizionalmente dal sistema delle autorizzazioni paesaggistiche e, nell’impianto del vigente codice, anche dalla natura sovraordinata del parere della sovrintendenza (previsto come obbligatorio e vincolante), è pertanto la sola modalità possibile per bilanciare il valore del paesaggio con le altre esigenze ed interessi che gravano sul territorio, in primo luogo con quelli di carattere urbanistico (che possono certamente trovare realizzazione con modalità rispettose del valore culturale).

Le modifiche proposte ribalterebbero il tradizionale rapporto tra urbanistica e paesaggio, assicurando all’urbanistica la piena prevalenza sui valori culturali espressi dal territorio. Esse contraddirebbero in questo modo tutta la tradizione italiana in materia di paesaggio, sia quella liberale che quella repubblicana, e determinerebbero una compromissione inammissibile del valore costituzionale del paesaggio, assurto a principio fondamentale della Repubblica. L’asserita esigenza di semplificazione procedimentale di cui, stando alla relazione, si farebbe portatore il disegno di legge è pertanto solo una pretestuosa copertura del reale intento perseguito: annullare la specificità della tutela pesistica facendola confluire nell’urbanistica.
L’obiettivo di semplificazione procedurale che si vorrebbe raggiungere è usato come mero artificio retorico. Non siamo di fronte a una esigenza di semplificazione bensì alla vanificazione della tutela di un valore fondante la Repubblica, ossia quello culturale, per diluirlo nell’urbanistica. In un’urbanistica, si badi, profondamente mutata rispetto a quella di 50 anni fa. La oramai consolidata tendenza della legislazione nazionale, e soprattutto regionale, in materia urbanistica, è contraddistinta dalla fuga da ogni seria pianificazione volta a tutelare gli interessi pubblici e collettivi che gravano sul territorio e dalla propensione a consentire il pieno dominio del territorio alle scelte della proprietà fondiaria (il caso Milano ne è solo un esempio calzante e paradigmatico), attraverso i piani casa regionali, quello nazionale, le rigenerazioni urbane con premi di volumetria, la cosiddetta urbanistica contrattata. In tale contesto, le modifiche proposte finirebbero con il solo principio di ordine che ancora permane nella gestione del territorio, per affidarne il governo alla deregolamentazione assoluta, cioè all’anarchia.
In un siffatto caos prevarrebbero i soli interessi speculativi della proprietà fondiaria, al di fuori di ogni strumento in grado di indirizzare le modifiche del territorio verso la garanzia degli interessi sociali, pubblici e collettivi, fra i quali la tutela del paesaggio assume carattere prioritario. Un’operazione, peraltro, di vecchia data, più volte impedita dalla Corte costituzionale, che ha sempre ribadito l’autonomia della tutela del paesaggio dalla materia urbanistica, affermando la primarietà (e l’autonomia) della tutela dei valori culturali espressi dal territorio, in anni in cui l’urbanistica, peraltro, aveva ben altri ancoraggi alla tutela degli interessi sociali.
Come rilevato, la sentenza n. 151 del 27 giugno 1986, con argomenti ribaditi costantemente nella successiva giurisprudenza costituzionale, ha riconosciuto che la prevalenza del valore estetico-culturale trova il suo chiaro fondamento nell’art. 9 della Costituzione «il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell’ordinamento, assume il detto valore come primario, cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro. Essa non esclude né assorbe la configurazione dell’urbanistica quale funzione ordinatrice, ai fini della reciproca compatibilità, degli usi e delle trasformazioni del suolo» ma si muove «nella direttrice della primarietà del valore estetico-culturale e della esigenza di una piena e pronta realizzazione di esso», configurando «un’autonoma disciplina dell’intero territorio dall’angolo visuale e per l’attuazione del valore estetico culturale come valore primario» (un concetto più volte ribadito, sino ai tempi più recenti).

Con l’approvazione delle modifiche ipotizzate, saremmo di fronte non a una semplice violazione di un valore di rango costituzionale, qual è la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, come sancito dall’art. 9 Cost., ma addirittura al suo annichilimento. È triste constatare che questa proposta, volta a inficiare la migliore tradizione liberale in materia, opportunamente custodita dalla Costituzione e coerentemente attuata dal Codice del 2004, provenga proprio dalla parte politica che, evidentemente solo a parole, si richiama proprio ai principi liberali.
Sembrano più che mai attuali le parole pronunciate proprio in Parlamento da Giulio Carlo Argan in sede di conversione del decreto legge voluto da Giuseppe Galasso nel 1985, perché chiariscono in profondità, allo stesso tempo, l’essenza del paesaggio e il pericolo che l’umanità sta correndo con la progressiva cancellazione delle testimonianze della cultura (dell’«humanitas») [nota 2 a fondo pagina] insita nei luoghi:
«[…] la cosiddetta bellezza della natura è in realtà il prodotto dell’intelligenza, del pensiero e del lavoro umano nel corso di più millenni; è un immenso libro, un palinsesto in cui sono scritti millenni di storia. È desiderabile che il mondo moderno non bruci, non lasci bruciare fino in fondo quel libro ed impari finalmente a leggerlo, a servirsi dell’esperienza del passato per progettare il futuro».
Attentare al paesaggio, ci avvertiva Argan, significa attentare al tempo stesso, alla civiltà umana, alla natura e alla cultura: dunque, all’uomo stesso. Correlativamente, la difesa del paesaggio, è, al tempo stesso, difesa della natura, dell’uomo e della sua cultura, che, non a caso, si chiama umanistica. Questa proposta è la più coerente manifestazione del pericolo nichilista che si trova di fronte a noi. Un nichilismo che non si limita, come è stato nel più tragico passato della storia dell’umanità, a bruciare i libri, ma che attenta direttamente all’uomo, distruggendo la più importante opera culturale realizzata dalla civiltà umana nel corso della sua storia: il libro del paesaggio.
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Nota 1 – Il «volto della patria», per riprendere un concetto attributo a Ruskin che dà il titolo all’opera di L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Trento, 2014.
Nota 2 – E. Cerio, Convegno del Paesaggio, Capri, 1922.
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