Ricercati dal 4 maggio, almeno 37 ragazzi tunisini sono morti nel Canale di Sicilia. Provenivano da Korba, Djierba, Manq e Kairouan. I familiari erano stati rassicurati per settimane dal ministero dell’Interno tunisino, secondo cui i loro parenti erano in Italia sani e salvi. Decine di famiglie tratte in inganno da fonti ufficiali del governo che l’Italia sventola come partner affidabile. Migliaia di migranti subsahariani sono abbandonati nel deserto del Sahara ai confini con l’Algeria e la Libia. Il 12 giugno il sito web di “Infomigrants” ha riferito di un rapporto riservato delle Nazioni Unite, condiviso con gli uffici diplomatici della regione, da cui risulta che centinaia di migranti «sono stati radunati in Tunisia e inviati in Libia, dove sono stati tenuti in condizioni abominevoli». Per gli esperti Onu, «le espulsioni collettive dalla Tunisia alla Libia − almeno duemila migranti nel 2024− e la relativa detenzione arbitraria dei migranti stanno alimentando il racket delle estorsioni e i cicli di abusi, che sono problemi di violazione di diritti umani già molto diffusi in Libia», con “taglie” che vanno dai 2.500 ai 4.000 dollari per ognuno dei profughi “liberati”. Un “quadro” che non preoccupa né l’Italia né l’Ue, che confermano l’accordo firmato nel 2023 con il presidente Saied


◆ L’analisi di EMILIO DRUDI *

Saif Al Din Harsh è uno delle decine di ragazzi tunisini scomparsi dal quattro maggio sulla rotta per Lampedusa. Almeno 37, ma le prime segnalazioni dicevano quasi 60, provenienti in gran parte da Korba, Djierba, Manq e Kairouan, oltre a vari centri minori. Una tragedia che ha destato una vasta commozione nel paese, mobilitando l’opinione pubblica accanto alle famiglie dei dispersi per chiedere conto al Governo della sua politica sull’immigrazione, a cominciare dall’accordo sottoscritto con l’Italia e l’Unione Europea, oltre che, più in particolare, della scomparsa di questi giovani, sollecitando ricerche più accurate e più trasparenza. Dal Governo sono arrivate sempre risposte rassicuranti. Ma di quelle decine di ragazzi non si è trovata traccia per settimane, fino a che, nei giorni scorsi, si è scoperto che non c’è più speranza perché alcuni sono stati rinvenuti ormai senza vita.

Ora Muhammad Harsh, il padre di Saif, mette sotto accusa le “autorità” del suo paese, rivolgendosi al presidente Saied e chiamando in causa soprattutto alcuni rappresentanti o ex rappresentanti delle istituzioni ad alto livello che – come riferisce la Ong “Terres Pur Tous” – ha avuto modo di incontrare insieme ad altre quattro famiglie dei dispersi. Il suo appello è stato pubblicato da “Terres Pour Tous”. «Attraverso due parlamentari – scrive Muhammad – ho avuto rassicurazione, insieme al primo commissario di Kairouan e ad altri familiari dei dispersi, che i nostri figli erano in Italia e stavano bene. Ci hanno precisato che la fonte di queste notizie era il ministero dell’Interno. E ci hanno detto, anzi, che se l’Italia avesse chiesto l’espulsione, Tunisi avrebbe respinto questo provvedimento. Chiedo, allora, chi sia responsabile di tutto questo: chi abbia venduto illusioni alle nostre famiglie».

È un’accusa pesante: decine di famiglie disperate tratte in inganno da fonti ufficiali. Nei prossimi giorni si dovrebbe sapere se e cosa risponderà il presidente Saied. Ma, se la drammatica testimonianza di Muhammad Harsh ha fondamento, come tutto lascerebbe credere, non sarebbe la prima verità nascosta da parte del Governo o comunque delle autorità tunisine. La più clamorosa è quella sulla deportazione e l’abbandono in pieno Sahara di migliaia di migranti subsahariani ai confini con l’Algeria e la Libia. Tunisi, per bocca dello stesso presidente Saied, ha sempre respinto queste accuse, negando la “pratica abituale” delle espulsioni forzate nei confronti anche di donne e ragazzi giovanissimi, ma diverse Ong le hanno ribadite con forza. Il 12 giugno, in particolare, il sito web di Infomigrants, citando come fonte l’agenzia Reuters, ha riferito di un rapporto riservato delle Nazioni Unite, condiviso con gli uffici diplomatici della regione, da cui risulta che centinaia di migranti «sono stati radunati in Tunisia e inviati in Libia, dove sono stati tenuti in condizioni abominevoli».

Quel rapporto dell’Onu, redatto sulla base delle testimonianze rese da decine di migranti palestinesi, siriani, sudanesi e sud sudanesi (alcuni dei quali con evidenti segni di tortura in più parti del corpo), risale al 23 gennaio scorso, ma Tarek Lamioun, un ricercatore libico esperto di diritti umani, ha dichiarato alla Reuters di sospettare che trasferimenti forzati di questo genere siano continuati almeno fino all’inizio di maggio, aggiungendo di stimare che «almeno duemila migranti siano stati trattenuti dalle autorità tunisine e trasferiti in Libia nel 2024» e citando come fonte delle informazioni raccolte «le interviste con più di trenta migranti».

Le accuse di Tarek Lamioun trovano conferma – come si evince sempre dal servizio di “Infomigrants” – nelle pesantissime dichiarazioni dei funzionari dell’Onu autori del rapporto, secondo i quali «le espulsioni collettive dalla Tunisia alla Libia e la relativa detenzione arbitraria dei migranti stanno alimentando il racket delle estorsioni e i cicli di abusi, che sono problemi di violazione di diritti umani già molto diffusi in Libia». Si tratta, a quanto pare, di un giro di denaro enorme anche perché «i funzionari libici chiedono migliaia di dollari in cambio del rilascio dei migranti», alimentando una situazione che «favorisce gli interessi di coloro che sfruttano le persone vulnerabili», compresi i trafficanti di esseri umani. Si parla di una “taglia” che va dai 2.500 ai 4.000 dollari per ognuno dei profughi “liberati”.

E in questo “giro” sarebbe ormai entrata a pieno titola anche la Tunisia. Secondo quanto si legge nel rapporto Onu, infatti, come scrive Infomigrants, «i funzionari di frontiera tunisini si sarebbero coordinati con le controparti libiche per trasferire i migranti nei centri di detenzione di Al Assa e Nalout in Libia. Una volta lì, i migranti sarebbero stati trattenuti per periodi variabili tra pochi giorni e diverse settimane prima di essere infine trasferiti nel centro di detenzione di Bir al Ghanam, più vicino a Tripoli». E, a conferma del coinvolgimento diretto delle autorità libiche, i funzionari Onu aggiungono che le strutture di detenzione «sono gestite dal Dipartimento libico per la lotta alla migrazione illegale e dalla Guardia Costiera libica, che in passato si sono resi complici di abusi sui migranti». Insomma, una sorta di “saldatura” tra pezzi delle istituzioni libiche e tunisine per la gestione del lucroso traffico dei migranti.

La firma dell’accordo tra Tunisia, Italia e Unione Europea

Ecco, questo è il quadro che emerge a Tunisi: stragi di migranti tunisini tenute nascoste o sulle quali addirittura le famiglie delle vittime sarebbero state ingannate e, d’altro canto, deportazioni sistematiche di massa di migranti subsahariani nel deserto, così condannati spesso a diventare schiavi da sfruttare o da ricattare nel giro del “mercato” di esseri umani che da anni ha messo radici in Libia con la partecipazione o comunque la complicità anche di funzionari o di interi settori delle istituzioni di Tripoli. L’ultimo blitz è di appena qualche giorno fa nella zona di Sfax: oltre 300 migranti fermati di cui si è persa ogni traccia, come è accaduto a migliaia di altri in precedenza. A quanto pare, però, non è un “quadro” che preoccupa granché né l’Italia né l’Unione Europea, che continuano a ribadire la validità dell’accordo sottoscritto sul finire del 2023 con il presidente Saied. Paradossalmente proprio con il pretesto di combattere il traffico dei migranti.

Questo accordo è stato esaltato come un “modello” anche in occasione del recente G7 presieduto dall’Italia in Puglia: quel vertice tra i “grandi della terra” concluso qualche giorno fa nel quale i diritti umani sono stati relegati decisamente in secondo piano e dove addirittura, secondo notizie riservate apprese e pubblicate dall’Agenzia Nova, «è stata rimandata ad altre discussioni nei mesi a venire la ‘più delicata questione’ riguardante la revisione delle convenzioni internazionali» per la tutela dei rifugiati/migranti, «fra cui quella di Ginevra adottata dopo la seconda guerra mondiale», nel 1951. Proprio quelle convezioni che sono l’ultima difesa per i disperati costretti ad abbandonare la propria terra ma che sempre più spesso diversi governi del Nord del mondo considerano una “limitazione insostenibile” alla propria sovranità. Lanciando di fatto la guerra dei “potenti della terra” contro “gli ultimi della terra”.

(*) L’autore dirige www.nuovidesaparecidos.net

Già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de “Il Messaggero”, ha approfondito i problemi dell’immigrazione, occupandosi in particolare della tragedia dei profughi provenienti dal Sud del mondo ed è tra i fondatori del Comitato Nuovi Desaparecidos. Sui rifugiati e le politiche migratorie ha pubblicato “Fuga per la Vita”, Edizioni Simple (2018). Insieme a Marco Omizzolo ha scritto “Ciò che mi spezza il cuore. Eritrea: dalla grande speranza alla grande delusione”, un saggio inserito nella collettanea Migranti e Territori (Ediesse, 2015); e “Etnografia della nuova diaspora eritrea: origini, sviluppo e lotta contro la dittatura”, nella collettanea Migranti e Diritti (Edizioni Simple, gennaio 2017). È autore anche di tre libri legati alla persecuzione antisemita: due con la Giuntina (“Un Cammino lungo un anno, Gli ebrei salvati dal primo italiano Giusto tra le Nazioni” nel 2012; “Non ha dato prova di serio ravvedimento. Gli ebrei perseguitati nella provincia del duce”, nel 2014); il terzo con Emia Edizioni “Il Marchio di diversi” nel 2019.