Ora l’Etiopia è diventata come la Libia, se non peggio, per i migranti in fuga. La storia di un sedicenne, ucciso con altri due ragazzi dalla polizia ad Addis Abeba mentre tentava di fuggire dalla prigione. Alla famiglia, in povertà assoluta, sono stati chiesti seimila dollari per riavere il suo corpo. Dei profughi eritrei si sa ancor meno degli altri sventurati che cercano di raggiungere le coste del Mediterraneo. Emilio Drudi, direttore del sito “Nuovi desaparecidos”, restituisce il nome ad uno di loro e getta una piccola lama di luce sui luoghi, la povertà e la paura da cui gli eritrei cercano di fuggire dopo la guerra del Tigray

◆ Il racconto di EMILIO DRUDI *
► Tentavano di fuggire, insieme a numerosi altri detenuti, dalla prigione etiope nella quale erano finiti come “clandestini”. Erano tre giovani eritrei. Sono stati uccisi dalla polizia ad Addis Abeba, verso la fine di gennaio. Altri due erano morti, sempre in un tentativo di fuga, ma in un quartiere della città, all’inizio del mese. Cinque vite spezzate nel volgere di pochi giorni.

Uno di quei ragazzi, Hanibal, aveva appena 16 anni, terzo di tre fratelli di una famiglia di agricoltori. Veniva da Damba Mich, un piccolo centro nelle vicinanze del confine etiope all’altezza di Agordat. Studente, aveva lasciato la sua casa ormai da più di dieci mesi per sottrarsi alla chiamata di leva a tempo pressoché indeterminato che lo attendeva entro meno di due anni, prima ancora di finire il corso di studi, che avrebbe dovuto completare nella grande base militare di Sawa. Lo stesso motivo che aveva spinto a fuggire i due amici uccisi con lui e gli altri due giovani morti circa due settimane prima. Voleva raggiungere il fratello maggiore, Mussié Solomun, esule in Olanda ormai da tempo, ma non avendo il denaro per continuare la fuga, è rimasto bloccato ad Addis Abeba. Prima di lui era scappato dall’Eritrea anche il secondo fratello che, residente in una località più a nord di Damba Mich, aveva passato il confine con il Sudan dal Tigray pagando un ticket di 8 mila dollari a una organizzazione di trafficanti ma è stato fermato in Libia ed è ora intrappolato a Tripoli. Si è rivolto all’ufficio dell’Unhcr, che lo ha registrato tra i richiedenti asilo: ora è da mesi in lista d’attesa per un canale umanitario verso l’Europa.

Hanibal non si è lasciato scoraggiare dalla sorte di questo fratello più grande e alla prima occasione ha raggiunto e superato a piedi la vicina frontiera con l’Etiopia, affidandosi alla fortuna. I familiari hanno saputo della sua fuga solo quando era ormai ad Addis Abeba. Per mesi hanno sperato che ci ripensasse e rientrasse a casa, dove sono rimasti solo i due genitori, entrambi avanti negli anni. Anche per questo forse, già in difficoltà per l’aiuto dato al secondo figlio, non avevano raccolto, magari con il contributo dei parenti della “famiglia allargata”, il denaro per consentirgli di proseguire il viaggio. Lui ha continuato a insistere che non sarebbe mai tornato indietro. Finché è incappato in un posto di controllo della polizia nel quartiere di Lafto, non lontano dalla casa in cui aveva trovato alloggio. Immediato l’arresto e il trasferimento in carcere. Era in attesa del rimpatrio forzato in Eritrea quando, pochi giorni dopo, il 21 gennaio, decine di detenuti hanno tentato la fuga. Hanibal si è unito a loro. Ma la reazione delle forze di sicurezza è stata feroce, con raffiche sparate ad altezza d’uomo. Tre giovani sono stati uccisi e almeno sette feriti. Tra i primi a cadere senza vita è stato Hanibal. Il suo corpo è ancora nell’obitorio dell’ospedale San Paolo di Addis Abeba. Per poterlo riportare in Eritrea – hanno riferito alcuni parenti – le procedure prevedono una spesa di circa 6 mila dollari. Ma i genitori non sanno come metterli insieme. Nello stesso obitorio sono finiti i corpi degli altri due ragazzi uccisi, di cui uno, Ataklti Isayas, morto per le gravi ferite il 23 gennaio, due giorni dopo la sparatoria, e l’altro, di cui la polizia non ha comunicato l’identità, all’inizio di febbraio.
Quando è accaduta questa tragedia la grande comunità di profughi eritrei che vive nel quartiere di Lafto stava già piangendo due ragazzi morti alcuni giorni prima. Fuggiti in momenti diversi dalla dittatura di Afewerki, i due si erano conosciuti ad Addis Abeba e, con l’aiuto di altri profughi, avevano trovato insieme un alloggio. Erano in casa quando sono stati sorpresi da una irruzione della polizia. Le scale e l’uscita dell’edificio in cui si rifugiavano erano bloccate da numerosi agenti. Presi dalla disperazione hanno tentato il tutto per tutto calandosi da una finestra, a diversi metri dal suolo. Non ce l’hanno fatta. Precipitati nel vuoto l’uno dopo l’altro, sono rimasti a terra, gravemente feriti. Portati in ospedale sono morti entrambi in poche ore.
Le due tragedie sono state raccontate da un esule eritreo che, ormai da anni a Bologna, ha il passaporto italiano: quando c’è stata l’evasione seguita dalla sparatoria era ad Addis Abeba e per certi versi ha vissuto direttamente quei giorni drammatici attraverso la comunità eritrea di Lafto, dalla quale ha appreso anche della morte degli altri due ragazzi, constatando di persona quale sia oggi in Etiopia la condizione dei profughi fuggiti dalla dittatura di Afewerki. Lui stesso non era ad Addis Abeba per caso: era stato costretto a partire dall’Italia per cercare di aiutare il fratello minore, Mussié, di 19 anni, a sua volta in fuga dal regime. Una fuga di per sé emblematica, per come si è sviluppata, della sorte dei rifugiati che in Etiopia trovano una situazione estremamente diversa dall’accoglienza incontrata fino allo scoppio della guerra in Tigray, nel novembre 2020. Domani la storia di Mussié in fuga da Dekameré nel racconto del fratello da Bologna. — (1. continua domani)
(*) L’autore dirige www.nuovidesaparecidos.net