◆ Il commento di ALFREDO T. ANTONAROS
► Le baronesse, scriveva Irene Brin, «sono sempre ragazze un poco scialbe, con pelle gialla o grigia». Quella che teniamo a Bruxelles, la Von der Leyen, sa però infiammare il suo atavico scialbore se c’è da arringare sul riarmo e la deterrenza. Le va riconosciuto, su questi argomenti, di avere incisività, suadenza e una capacità di convinzione capace di trascinarsi dietro molto del Parlamento europeo, dalla destra a tutto il Pd italiano, che a Strasburgo indossa, com’è noto, l’elmetto e la mimetica. Ovviamente tutta la retorica sul riarmo, impensabile solo pochi mesi fa, si regge sul semplice postulato che la sicurezza europea è fragilissima, quasi in frantumi. Che si è abbassata troppo la guardia. Che Russia e Cina sono minacciose ai confini. Che è obbligatorio accelerare la produzione di armi e che forse non basteranno 800 miliardi di euro per aumentare le spese per la difesa europea.
Indipendentemente dall’effettiva consistenza del rischio di un attacco russo o cinese, ciò che sembra premere di più – per giustificare le spese in bombarde e cannoni – è che si spalmi nelle coscienze un senso forte e invasivo di insicurezza. Perché passi questo messaggio (e i conseguenti investimenti) è necessario che ogni Stato europeo dimostri di essere non abbastanza in grado di poter garantire sicurezza ai propri cittadini e che si crei uno stato d’ansia collettivo che accetti di buon grado il vedere speso in carrarmati quel denaro che tutti si sperava fosse invece investito in scuole, ospedali e welfare. Così succede, ad esempio, che un Paese come la Grecia − che, fino a ieri, non aveva più neanche gli occhi per piangere – decide di investire 25 miliardi di euro per la «più drastica trasformazione delle Forze Armate nella storia moderna» e per disporre «di uno dei sistemi di difesa più avanzati d’Europa».
Spiace che questa retorica della paura sia alimentata anche da giornalisti solitamente intelligenti. Uno di loro, qualche giorno fa, su La Stampa, ha ricordato (citando un libro di Varlam Salamov) che, nei gulag, la forza fisica («anche soltanto esibita, minacciata, talvolta consumata») diventa una categoria morale necessaria per non soccombere senza aver neppure tentato di combattere (obbligatorio quindi considerare ingenui, immorali o in malafede i pacifisti). Già il prison movie americano ci aveva raccontato della legge del taglione o della vendetta e di giustizieri solitari tra pareti carcerarie fradicie di violenza. Ma fortunatamente, a differenza di certa Stampa, non ci sentiamo ancora approdati in un gulag o ad Alcatraz. Ci sentiamo parte invece di una società con regole da rispettare, con garanzie e tutele in cui anche i più deboli e i più fragili – anche senza la lama di un coltello o un revolver in tasca – possano avere diritto al rispetto e alla dignità. Per tutto questo l’Italia ha saputo in passato resistere. E, probabilmente, è ancora pronta a farlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA