Il primo ministro Starmer non si è limitato a confermare l’obiettivo fissato da Trump per i Paesi Nato, ma ha anche annunciato una roadmap intermedia con un traguardo del 4,1% entro il 2027. Dove prendere 3,5 miliardi di sterline in più all’anno nessuno l’ha capito: Il ministro della Difesa annuncia un piano dettagliato non prima del 2029. Gli analisti sollevano dubbi sulla “sincerità contabile” del premier laburista. Nel campo progressista si riconosce la necessità di aggiornare la postura difensiva del Paese, ma si teme che l’impegno possa tradursi in nuovi tagli ai servizi pubblici. In un contesto segnato da inflazione, crisi energetiche e fragilità strutturali, il dilemma tra ambizioni militari e tenuta sociale resta centrale. E l’adesione all’aumento della spesa militare sembra più una scelta geopolitica obbligata che una convinzione condivisa
◆ L’articolo di SAMUEL CAMPANELLA, da Londra
► Dopo il vertice Nato tenutosi all’Aia, che ha sancito l’aumento collettivo delle spese militari, tutti i Paesi membri hanno appoggiato il nuovo obiettivo – con la sola eccezione della diplomatica Spagna. Per il Regno Unito, l’adesione alla soglia del 5% del Pil entro il 2035 rappresenta un aumento notevole rispetto all’attuale 2,3%. Un salto che il governo in carica ha definito «ambizioso ma necessario», in risposta alle nuove minacce globali nonché per riaffermare la propria posizione all’interno dell’Alleanza Atlantica. Il primo ministro Starmer non si è limitato a confermare l’obiettivo pattuito, ma ha anche annunciato una roadmap intermedia con un traguardo del 4,1% entro il 2027. Sottolineando la necessità di rafforzare la difesa dei confini Nato, affermando che il Paese deve «assumersi la propria parte di responsabilità nella sicurezza collettiva». Il ministro degli Esteri, in un’intervista, ha parlato della «fine dell’illusione post-Guerra Fredda, l’era dei dividendi della pace è finita»: così si è espresso David Lammy.
Le perplessità emergono anche dal mondo degli analisti politici. Editorialisti del Telegraph e del Spectator hanno sollevato dubbi sulla «sincerità contabile» del 5%, notando che gran parte delle cifre potrebbe includere spese indirette – come infrastrutture, cybersicurezza o tecnologie dual-use – che non incidono direttamente sulle capacità operative delle forze armate. Nel campo progressista, il sostegno al nuovo target è spesso accompagnato da cautele. Se da un lato si riconosce la necessità di aggiornare la postura difensiva del Paese, dall’altro si teme che l’impegno possa tradursi in nuovi tagli ai servizi pubblici.
Resta da capire se il governo saprà tradurre l’annuncio in misure applicabili e sostenibili. In un contesto segnato da inflazione, crisi energetiche e fragilità strutturali, il dilemma tra ambizioni militari e tenuta sociale resta centrale. Il 5%, più che una semplice cifra, è una dichiarazione politica: intende rafforzare il ruolo globale di Londra, ma rischia di scontrarsi con la realtà economica e politica di un paese in affanno. Se in Italia la logica del si vis pacem, para bellum s’è fatta largo nel dibattito pubblico con inquietante naturalezza, in Gran Bretagna lo scenario appare diverso. Qui l’adesione all’aumento della spesa militare sembra più una scelta geopolitica obbligata che una convinzione condivisa. E finché non saranno chiariti i costi – e i compromessi – di questa promessa, il rischio è che il 5% rimanga uno slogan, più che un progetto concreto. © RIPRODUZIONE RISERVATA