Con la scusa del Decreto legge “Cura Italia” sul Covid 19, da cinque annigli “azionisti critici” possono solo porre domande scritte alle assemblee che si svolgono a porte chiuse. Una delle poche società italiane che ha riaperto porte e finestre è Snam, partecipata al 30 per cento dallo Stato italiano. A cui gli azionisti di ReCommon qualche domanda scomoda sono riusciti a porla: sugli affari con le società israeliane, i diritti umani in Tunisia e i progetti fossili lungo le coste italiane. A quando le risposte?
◆ L’articolo di IVO LEONE
►La prima comparsa dell’“azionariato critico” aveva fatto capolino alla metà degli anni Ottanta del Novecento anche in Italia. Uno strumento diffuso in tutto il mondo con cui compri una manciata di azioni di una corporation e vai a “fare le pulci” durante l’assemblea annuale degli azionisti. Purché fossero quelle giuste: con diritto di parola e di voto nell’assemblea generale. Agli albori, in Italia, andavano forte Fiat e Olivetti per le loro ramificazioni in tutto il mondo e per il peso notevole esercitato sulle scelte politiche ed economiche del nostro Paese. Ad acquisire azioni critiche erano, per lo più, associazioni ambientaliste. E ricordo che la mia unica azione dell’Olivetti, acquisita dal piccolo “stock” (una decina di azioni) di Legambiente, mi consentì di formulare “la domanda non voluta” dall’amministratore delegato del tempo. Era rivolta a Carlo De Benedetti e riguardava il suo stabilimento nel Sudafrica dell’apartheid. De Benedetti riconobbe il problema e s’impegnò a far sentire la sua voce attraverso scelte aziendali che contrastassero la discriminazione razziale, mentre Nelson Mandela era ancora chiuso in galera.
Negli anni la “piccola e contingente” pressione dell’azionariato critico qualche effetto lo ha avuto nei circuiti di formazione dell’opinione pubblica. Nessun effetto “rivoluzionario”, solo qualche trasparenza in più giusto per i giorni in cui se ne scriveva sui giornali. Ed ha funzionato fino alla pandemia del Covid-19, la scusa perfetta per richiudere porte e finestre agli azionisti “rompiscatole”, grazie al Decreto legge “Cura Italia” del 17 marzo 2020 con cui è stato possibile porre solo domande scritte. Eni, Snam, le loro consorelle e le banche che le supportano si sono precipitate così a svuotare questo momento di democrazia societaria. La Snam ha fatto eccezione e gli “azionisti critici” di ReCommon «hanno portato all’attenzione della dirigenza e degli investitori questioni e problemi gravi che pongono in dubbio la coerenza dell’operato di Snam con i diritti umani, il diritto internazionale e i principi di una giusta transizione energetica», precisa l’associazione no profit in un suo comunicato stampa. La sintesi delle questioni sollevate in 80 domande poste nell’assemblea generale degli azionisti l’ha fatta su Instagram l’azionista critica di ReCommon Elena Gerebizza, riassunte nella scheda qui a fianco.
La questione più spinosa, il 14 maggio scorso, ha riguardato le relazioni controverse di Snam con società private israeliane. «Dal dicembre 2021 − scrive l’associazione ambientalista − Snam controlla il 25% della East Mediterranean Gas Company (Emg), la società proprietaria del gasdotto Arish-Ashkelon che collega Israele con l’Egitto. Si tratta di un gasdotto di 90 chilometri che dal 2020 viene utilizzato da Israele per esportare verso l’Egitto il gas estratto nei giacimenti offshore di Tamar e Leviathan, gas che poi l’Egitto utilizza o rivende su altri mercati». Secondo i dati forniti da Snam «l’utile pro-quota Snam generato dalla partecipazione in Emg dal 2023 al Q1 2025 è pari a 18 milioni di euro». In precedenza Snam aveva firmato «tre memorandum of understanding con le società isrealiane Delek Drilling e Dan sul gas naturale liquefatto (Lng) per il trasporto pubblico; con Dan per lo sviluppo di progetti di mobilità verde e con la start-up H2Pro nella ricerca sull’idrogeno».
Le richieste avanzate dall’azionariato critico sono state molto concrete: «vendere le quote di partecipazione nella società Emg; recedere da qualsiasi contratto e/o accordo in essere con il Governo israeliano e con aziende del paese – incluso il gruppo NewMed Energy, Dan, H2Pro e altre aziende israeliane – finché permangono seri dubbi sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale; avviare una due diligence approfondita sui partner attivi in contesti di occupazione e conflitto; adottare una policy vincolante in materia di rispetto dei diritti nei contesti operativi internazionali, in linea con i Principi Guida Onu su Imprese e Diritti Umani». ReCommon, in una delle pochissime assemblee degli azionisti che ha interrotto la serie quinquennale delle riunioni “a porte chiuse”, ha espresso forti preoccupazioni sulla situazione in Tunisia, legata al progetto SouthH2Corridor, e al Ccs di Ravenna, co-promosso da Snam e Eni. «Quello che in Italia è conosciuto anche come il Corridoio Sud dell’idrogeno è un’infrastruttura di 3.300 chilometri che dal Nord Africa dovrebbe arrivare fino in Germania, passando per l’Italia, per trasportare idrogeno prodotto in buona parte in Tunisia, dove attualmente la repressione da parte dell’esecutivo sta colpendo in lungo e in largo tutti i settori della società civile». Uno dei progetti cardini del Piano Mattei del governo Meloni nasce quindi già segnato da pesanti criticità, di cui l’associazione no profit ha chiesto conto a Snam.
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