Quella che segue è la riflessione sugli Ottant’anni dalla Liberazione dal nazifascismo e quindi sul dovere di «dare una risposta adeguata ai nostri patetici nipotini di Mussolini». «Un atto profondamente politico nel senso migliore del termine», scrive Battista Gardoncini, nipote diretto del comandante partigiano nelle valli di Lanzo, catturato in un rastrellamento nazista e fucilato insieme a otto compagni a Torino. Fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Il 25 aprile del 1945, per le strade liberate della città a bordo di un camion militare sfilarono i suoi compagni partigiani con le insegne della Brigata Garibaldi che portava il suo nome. Il testo che segue è l’orazione ufficiale della manifestazione tenuta a Pessinetto nella mattinata della Liberazione su invito dei comuni di Pessinetto, Traves e Mezzenile dove i partigiani cacciarono dalle loro valli i nazisti e la milizia fascista con i loro lacchè che li guidavano nei rastrellamenti per seminare il terrore

Sfilata per le strade di Torino dopo la Liberazione dell’XI Brigata Garibaldi G.B. Gardoncini; sotto il titolo, estate 1944 gruppo partigiano a Usseglio nelle valli di Lanzo (credit Centro di documentazione di storia contemporanea e della Resistenza nelle Valli di Lanzo, Nicola Grosa)

Il ricordo di BATTISTA GARDONCINI

Vorrei iniziare parlando di memoria. Che in Italia è stata spesso inquinata da menzogne, fraintendimenti e omissioni. O nel migliore dei casi si è dimostrata corta, troppo corta. L’ultimo caso che mi viene in mente riguarda un politico piemontese convinto che l’esercito italiano abbia combattuto in Russia, tra il 1941 e il 1943, per difendere la nostra libertà. Curioso modo di difendere la libertà, quello di invadere un altro paese a fianco delle SS di Hitler. Mario Rigoni Stern con “Il sergente nella neve” e Nuto Revelli con “La strada del Davai” hanno detto la parola definitiva su quella disfatta militare che che ci è costata centomila morti e ha segnato l’inizio della fine per il fascismo. C’erano. Noi dovremmo avere almeno la decenza di leggere le loro testimonianze.

Risiera di San Sabba (Trieste) lager con un forno crematorio in cui furono rinchiusi e uccisi tra 2 e 5mila ebrei, partigiani, oppositori politici e molti prigionieri jugoslavi

L’Italia non ha mai fatto fino in fondo i conti con le sue responsabilità storiche. Abbiamo cercato di negarle ripetendo spesso a sproposito la frase “italiani brava gente”, dimenticandoci che nelle guerre coloniali abbiamo usato i gas asfissianti, abbiamo fucilato, abbiamo impiccato. Il 27 gennaio 1945 il campo di Auschwitz fu liberato dai russi, non dagli americani come ci ha raccontato Benigni ne “La vita è bella”. In quella data celebriamo la giornata della memoria, ma dimentichiamo che nel 1938 abbiamo copiato i nazisti emanando le leggi razziali, e durante la guerra abbiamo rastrellato migliaia di ebrei mandandoli a morire in Germania. I più anziani, incapaci di muoversi, sono stati uccisi e inceneriti qui in Italia, nel forno crematorio della Risiera di San Sabba di Trieste. A seconda delle fonti perirono tra le duemila e le cinquemila persone: oltre agli ebrei, morirono partigiani, oppositori politici, e molti jugoslavi. Anche di loro dovremmo parlare quando ricordiamo, giustamente, la tragedia delle foibe.

Nella nostra memoria collettiva le responsabilità del fascismo e i primi tre anni di guerra sono spesso rimossi. Non credo esistano sondaggi sul tema, ma sono convinto che la maggior parte degli italiani pensi oggi che l’Italia fosse schierata dalla parte dei buoni, e che nel 1943 sia stata invasa dai tedeschi cattivi. Del resto, su quell’anno tragico abbiamo mentito fin da subito anche nei documenti ufficiali. Nei nostri libri di storia c’è scritto che l’otto settembre del 1943 l’Italia ha firmato con gli alleati un armistizio, e cioè tecnicamente un accordo tra le parti in conflitto per la sospensione delle ostilità. In realtà la nostra fu semplicemente la resa senza condizioni di una nazione sconfitta. Così annunciarono in quei giorni gli alleati sulle loro agenzie di stampa, e così c’è scritto nei loro libri di storia.

Dopo la resa, il nostro re da operetta Vittorio Emanuele III e il suo fido maresciallo Pietro Badogio – quello stesso Badoglio cui è ancora incredibilmente intitolato il comune di Grazzano – pensarono bene di darsela a gambe fino a Brindisi, lasciando dietro di sé uno stato devastato e un esercito allo sbando perché senza comandanti. A salvare l’onore del paese restarono soltanto loro, i partigiani. Nelle valli di Lanzo, in tante altre valli, in pianura, nelle città dove agivano le Sap e i Gap, nelle fabbriche dove furono organizzati scioperi e sabotaggi. Non erano moltissimi, ma abbastanza per colpire i tedeschi che avevano occupato quasi tutta l’Italia e i loro fiancheggiatori fascisti, che nel frattempo si erano organizzati nella repubblica fantoccio di Salò. Erano di tutte le estrazioni sociali, di tutti i colori politici e con idee molto diverse sul futuro che volevano per il paese, ma uniti nella lotta dalla consapevolezza di essere dalla parte giusta della storia.

Estate 1944 ricostruzione di un ponte a opera dei partigiani nelle valli di Lanzo (credit Centro di documentazione di storia contemporanea e della Resistenza nelle Valli di Lanzo, Nicola Grosa)

Si è molto discusso sul contributo militare dei partigiani alla sconfitta degli occupanti e dei loro lacchè. Personalmente penso che fu notevole, ma non è questo il luogo per approfondire la questione. Credo però che nessuno possa mettere in dubbio il loro ruolo nella Liberazione del paese e nella costruzione di una Italia migliore. Da questo punto di vista, considero che l’esperienza vissuta nelle valli di Lanzo nella primavera e nell’estate del 1944 abbia avuto una enorme importanza, e ho provato a raccontarla nel documentario  “Una stagione di libertà”

Comunque la si voglia definire – alcuni parlano di zona libera, altri di vera e propria repubblica partigiana – la sostanza non cambia. In piena guerra, un fazzoletto di terra italiana seppe liberarsi con le sue sole forze dal nazifascismo. Molti ricordano la battaglia di Lanzo, del giugno del 1944, quando le formazioni garibaldine che si erano costituite dopo l’otto settembre raccogliendo vecchi militanti dei partiti messi fuori legge dal fascismo, ex militari e i giovani renitenti alla leva di Salò si sentirono abbastanza forti per scendere sulla città e attaccare il nemico. La battaglia non ebbe esiti decisivi, ma quello che accadde dopo nelle alte valli è straordinario. Qui i partigiani costituirono le loro amministrazioni locali, garantirono l’ordine pubblico con tribunali e forze di polizia, portarono i rifornimenti dalla pianura con corvée che attraversavano le montagne, stamparono giornali. A Lanzo tedeschi e fascisti chiedevano i documenti dei viaggiatori sulla ferrovia. Poco più in su, a Germagnano, lo facevano le pattuglie partigiane.

Il controllo dei partigiani sul territorio era capillare, interrotto soltanto da isolate puntate del nemico che risaliva le valli protetto dai carri armati, e a un certo punto cercò anche di trattare per ottenere una sorta di neutralità. Ci furono anche errori, nessuno lo nega. Bisognava combattere le spie, qualcuno ne approfittò per regolare vecchi conti che non avevano a che fare con la lotta partigiana. Ma inviterei a non giudicare quegli avvenimenti con gli occhi di oggi, Erano tempi, difficili, duri per tutti. Tempi – come disse in seguito un partigiano – dove chiunque avesse in mano un fucile aveva ragione. Anche se alcuni lo negano, in quegli anni nell’Italia del nord e del centro ci fu quella che lo storico Claudio Pavone, in gioventù partigiano combattente, non ebbe il timore di definire una guerra civile. Nel complesso però, fu in quei mesi che una popolazione reduce da venti anni di dittatura conobbe per la prima volta il significato di parole importanti come “libertà”, “democrazia” e, perché no, “rivoluzione“.

Gruppo di partigiani della 41ª Brigata Garibaldi (credit Archivio Istoreto, fondo Dal Mas)

L’esperienza della repubblica partigiana, nata quando ancora si nutriva l’illusione di una rapida fine della guerra, si concluse nell’autunno del ’44, quando i tedeschi, impegnati nei combattimenti con gli alleati lungo la linea gotica, decisero di non poter tollerare spine nel fianco nelle retrovie. I grandi rastrellamenti dell’autunno costrinsero i partigiani a disperdersi. Molti, dopo una durissima marcia sulle montagne, andarono in Francia, dove non furono bene accolti e furono costretti a tornare indietro. Alcuni scesero in pianura, dove continuarono a lottare e a morire per la libertà. Alcuni, come mio nonno di cui porto con grande orgoglio il nome, furono catturati e fucilati. Ma il seme che avevano gettato fiorì nell’aprile del 1945, quando le formazioni ricostituite scesero dalle valli e parteciparono alla liberazione di Torino.

A ottanta anni di distanza, celebriamo la loro vittoria. Non tutto è andato come loro avevano sperato, e fa male vedere che alcuni eredi non pentiti del fascismo sono oggi al potere nella repubblica nata dalla Resistenza. Per questo mi auguro che la prossima celebrazione sia anche una occasione per riflettere sugli errori che noi, eredi di quei partigiani, abbiamo fatto. Mio nonno, in una lettera spedita dalla montagna a mia nonna, parlando della sua esperienza di comandante garibaldino, scrisse testualmente «Mi sono certamente modificato, perché sono diventato severo con me stesso, sento una responsabilità che mi indica in maniera chiara il mio lavoro futuro. Voglio fare qualcosa di buono nel mondo, ne ho ancora il tempo, e qualche capacità». Lui non ne ha avuto molto. Ma noi siamo ancora qui. © RIPRODUZIONE RISERVATA

(*) L’autore dirige oltreilponte.org

Giornalista, già responsabile del telegiornale scientifico Leonardo su Rai 3. Ha due figlie, tre nipoti e un cane. Ama la vela, la montagna e gli scacchi. Cerca di mantenersi in funzione come le vecchie macchine fotografiche analogiche che colleziona, e dopo la pensione continua ad occuparsi di scienza, politica e cultura sul blog “Oltreilponte.org”.

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