Il grande fotografo brasiliano è stato capace di denunciare e di scuotere le coscienze, in linea con il suo primo lavoro di economista attivo nel campo della cooperazione internazionale. Ci ha lasciati nei giorni scorsi. La scoperta del potere della fotografia avvenne durante un viaggio nel Sahel devastato dalla siccità e da allora Salgado non si è più fermato: dai disperati delle miniere ai pozzi di petrolio del Kuwait in fiamme, dagli operai ai migranti, dall’Africa all’America del Sud, dai ghiacci dei Poli alle tribù amazzoniche a rischio di estinzione. Per onorarlo, alcune sale cinematografiche hanno rimesso in programmazione “Il sale della Terra”, lo splendido documentario del 2014 a lui dedicato dal regista tedesco Wim Wenders
◆ La recensione di BATTISTA GARDONCINI *
► Nei giorni scorsi è morto il grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Per onorarlo, alcune sale cinematografiche hanno rimesso in programmazione “Il sale della Terra”, lo splendido documentario che nel 2014 il regista tedesco Wim Wenders, in collaborazione con il figlio del fotografo Juliano, gli ha dedicato. Quasi due ore di filmato, che alternano i colori delle riprese allo spettacolare bianco e nero delle immagini di Salgado, capolavori capaci di cogliere insieme alla fatica dell’uomo la grande bellezza di un mondo in pericolo per lo sfruttamento selvaggio delle risorse.
È fotografia sociale quella di Salgado, fotografia capace di denunciare e di scuotere le coscienze, in linea con il suo primo lavoro di economista attivo nel campo della cooperazione internazionale. La scoperta del potere della fotografia avvenne durante un viaggio nel Sahel devastato dalla siccità e da allora Salgado non si è più fermato: dai disperati delle miniere ai pozzi di petrolio del Kuwait in fiamme, dagli operai ai migranti, dall’Africa all’America del Sud, dai ghiacci dei Poli alle tribù amazzoniche a rischio di estinzione, senza trascurare la cronaca: era presente a Washington nel 1981, quando il presidente Reagan fu ferito in un attentato, e le sue foto fecero il giro del mondo. Lo accompagnava sempre una piccola Leica analogica, che decise di abbandonare per il digitale perché temeva che gli scanner degli aeroporti potessero danneggiare le pellicole.
(*) L’autore dirige oltreilponte.org
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