Dopo oltre undici anni di guerra — nel Donbass si spara dal 2014 — e centinaia di migliaia di morti, dopo i timori per un allargamento del conflitto, dopo le angosce per il possibile uso di armi nucleari, negli ultimi giorni si sta finalmente profilando una possibile via di uscita. Forse un semplice armistizio orchestrato per predare le risorse del sottosuolo ucraino, intrecciato al business della ricostruzione edilizia di un Paese martoriato e fatto a pezzi. Un epilogo amaro per gli ucraini ed anche − si parva licet − per i tanti commentatori con l’elmetto che in tutto questo tempo, al sicuro dietro comode scrivanie, hanno combattuto per interposti ucraini la loro guerra santa in difesa della libertà e della democrazia. Ed ora? Ci vorrà ancora del tempo, potranno esserci pericolosi colpi di coda, ma alla fine si arriverà ad una lettura più equilibrata degli avvenimenti ucraini
◆ Il commento di BATTISTA GARDONCINI *
►Fa perfino un po’ di pena l’ex comico Zelensky, brutalmente scaricato da chi a suo tempo lo aveva illuso di poter vincere una guerra persa in partenza. Non serve più all’America, perché il pragmatico Trump ha capito che con i russi è meglio mettersi d’accordo. Non serve alla Nato, che si adeguerà, come ha sempre fatto, ai desideri degli Stati Uniti. E non serve all’Europa, dove le sue continue richieste di nuove armi vengono accolte con crescente fastidio perché la retorica bellicista ha fatto il suo tempo. Al di là delle dichiarazioni di principio utili soltanto per non perdere la faccia, il vecchio continente non vede l’ora di tornare a fare affari con Putin, e sa che l’unica strada per arrivarci è quel negoziato che il presidente ucraino ha vietato per legge quando ancora era convinto di vincere. Adesso ha cambiato idea, ma l’impressione è che sia arrivato fuori tempo massimo. Molto probabilmente non sarà lui a gestire la fase di transizione che Trump e Putin stanno preparando per il suo martoriato Paese.
Ciò che importa oggi, però, non è il futuro di Zelensky e degli oligarchi che lo circondano. Il fatto nuovo è che dopo oltre undici anni di guerra — nel Donbass si spara dal 2014 — e centinaia di migliaia di morti, dopo i timori per un allargamento del conflitto, dopo le angosce per il possibile uso di armi nucleari, negli ultimi giorni si sta finalmente profilando una possibile via di uscita. E pazienza se i suoi termini non piaceranno ai tanti commentatori con l’elmetto che in tutto questo tempo, al sicuro dietro comode scrivanie, hanno combattuto per interposti ucraini la loro guerra santa in difesa della libertà e della democrazia. Che credibilità possono avere dopo avere taciuto sulle cause di un conflitto dove le pesanti responsabilità russe non dovrebbero far dimenticare quelle occidentali, e dopo avere spudoratamente mentito sull’andamento delle operazioni belliche? Che ne è stato delle sanzioni che avrebbero ridotto Putin a più miti consigli, dei soldati russi costretti dalla mancanza di munizioni a combattere con le pale, e della controffensiva ucraina che avrebbe ribaltato le sorti della guerra grazie agli invincibili carri armati americani? Qualcuno ricorda le liste di proscrizione dei pochi analisti che hanno sollevato dubbi su una lettura dei fatti a senso unico, e sono stati messi alla gogna come “putiniani“? E che dire di Dostoevskij, ritenuto non degno di essere insegnato nelle nostre università?
Giornalista, già responsabile del telegiornale scientifico Leonardo su Rai 3. Ha due figlie, tre nipoti e un cane. Ama la vela, la montagna e gli scacchi. Cerca di mantenersi in funzione come le vecchie macchine fotografiche analogiche che colleziona, e dopo la pensione continua ad occuparsi di scienza, politica e cultura sul blog “Oltreilponte.org”.
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