Prima che lo Stato di Israele nascesse in Palestina erano state valutate altre località alternative: dalla Pampa argentina, al Mau Plateau, dall’Uganda al Madagascar. Lo slogan di Lord Anthony Ashley Cooper — “A Land Without People for a People Without Land” (Una terra senza popolo per un popolo senza terra) — avrebbe potuto prendere corpo non necessariamente nei luoghi storici dell’ebraismo biblico. Gli inglesi sapevano bene, difatti, che in Palestina, sotto il dominio ottomano, attorno al 1850, circa l’85% della popolazione in quell’area era mussulmana, l’11% cristiana e solo il 4% ebrea. A prevalere, dopo la Shoah, furono i richiami biblici del nazionalismo ebraico, come se il territorio abitato per i quattro quinti da una popolazione mussulmana fosse una landa desertica. A cui si aggiunse un pernicioso “do ut des” tra Stati Uniti e lobby sionista che incendia il Medio Oriente
◆ Il commento di ALFREDO T. ANTONAROS
► Voglio bene agli ebrei. Anche ai cattolici, certo. Anche ai buddisti, ai protestanti, agli indù, agli islamici, ai copti. Ma agli ebrei voglio un bene particolare. Merito di scrittori come Canetti, Amos Oz, Grossman, Irène Némirovsky, Isaac Singer, Abraham Yehoshua, Kafka, Primo Levi e molti altri, che mi hanno fatto ammirarne l’intensità profonda dell’animo di quel popolo. Anche per questo resta per me un mistero che gli ebrei tollerino di essere rappresentati oggi da uno stato delinquenziale, da un governo che pratica scientificamente il genocidio, da un primo ministro sciagurato e criminale, da un esercito stragista che usa metodi che nulla hanno da invidiare a quelli praticati a suo tempo dai nazisti, con una ferocia che ha il solo scopo di un definitivo annientamento del popolo palestinese e di parte di quello libanese.
Pochi ebrei amano ricordare che, prima che lo stato di Israele finisse dove sta ora, erano state prese in considerazione altre località alternative. Si era prima pensato all’estesa pampa argentina, oppure al Mau Plateau (l’attuale Kenya) o all’Uganda (offerta da Chamberlain dopo la guerra boera). Anche i nazisti, prima dei campi e delle camere a gas, avevano pensato a un trasferimento degli ebrei fuori dall’Europa, in Madagascar. Per trovare una collocazione al futuro stato ebraico, fino dalla metà del XIX secolo, Lord Anthony Ashley Cooper (politico britannico dell’era vittoriana) aveva coniato lo slogan “A Land Without People for a People Without Land” (Una terra senza popolo per un popolo senza terra). Era solida opinione inglese infatti che in Palestina, sotto il dominio ottomano, non ci fosse una popolazione con aspirazioni nazionali specifiche. Il sionismo e i congressi dei delegati panebraici – che rifiutavano ogni proposta che non vedesse lo Stato ebraico dentro i luoghi storici dell’ebraismo biblico – adottarono lo slogan di Ashley Cooper per avvalorare la costituzione di un forte stato ebraico da sovrapporre alla presenza araba in Palestina giudicata “insignificante”.
Eppure, già attorno al 1850, circa l’85% della popolazione in quell’area era mussulmana, l’11% cristiana e solo il 4% ebrea. Di fatto, da oltre un secolo, le cose sono ancora ferme a questo punto per precisa volontà soprattutto dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Il governo britannico, preoccupato fin da metà Ottocento del controllo egiziano sullo stretto di Suez e della possibile presenza della Russia nel Mediterraneo, è oggi il servo sciocco degli Stati Uniti. Questi ultimi mirano, in quest’area, solo al petrolio e al controllo militare di territori per loro rilevanti sotto il profilo energetico e dei trasporti commerciali. L’Iraq è stato raso al suolo solo per questo. È dal dicembre del 1947 che si svolgono in Palestina cruente azioni di guerra. Il piano Dalet, messo a punto dalle autorità ebraiche per la difesa e il controllo del neonato Stato ebraico e degli insediamenti ebraici al di là dai confini, è sempre stato considerato indirettamente responsabile di massacri e azioni violente contro la popolazione palestinese, in un tentativo di pulizia etnica che ora, con Netanyahu, è dilagata e diventata sistematica e quotidiana.
Nessuno ha il diritto, ovviamente, di dimenticare che il 7 ottobre è accaduta in Israele una strage orrenda, ma fatti simili, da una parte e dall’altra, hanno una storia che inizia almeno dal dopoguerra. L’attuale “vendetta” di Israele è arrivata a 43.000 persone uccise (di cui quasi 18mila erano bambini, secondo l’Onu) e 100mila ferite dall’inizio delle operazioni militari. Cifre che purtroppo si aggiornano di ora in ora. L’Inghilterra assiste a queste stragi, da oltre un secolo e mezzo, appoggiando militarmente i suoi clienti presenti nell’area, indifferente ad ogni crimine venga commesso. Gli Stati Uniti, i veri registi di questo orrore che armano e finanziano generosamente, inviano ultimamente in Palestina, come mediatore, un Antony Blinken, figlio di genitori ebrei ed ebreo egli stesso. Espressione – non l’unica che si muove all’interno della Casa Bianca – di quella lobby sionista che, nel cuore della politica americana, finanzia un sistema che necessita costantemente di enormi somme di denaro. Una plutocrazia, quella americana, in cui nessuno viene eletto a una carica senza sostanziali investimenti che, per le campagne elettorali di deputati e senatori, raggiungono cifre di centinaia di milioni a testa.
Il do ut des tra Israele e Usa è basato su questo ricatto che consente a Blinken di essere segretario di Stato e che, in caso di vittoria di Kamala Harris, permetterà a Josh Shapiro, attuale governatore della Pennsylvania (che ha fatto della sua identità ebraica il principale elemento delle sue campagne elettorali) di diventare vicepresidente degli Usa, lo stato che, da sempre, ama fare guerre, distruzioni e stragi a casa degli altri. Quando poi, però, le stragi accadono a casa loro insieme a immani tragedie come il crollo del Trade World Center, con i suoi tremila morti innocenti, sarebbe bene che i politici americani non facessero finta di essere sorpresi da tanto orrore che ha radici in ciò che hanno seminato per il mondo. Sarebbe una sorpresa cui certamente anche Canetti, Grossman, Kafka, Primo Levi, non darebbero molto credito. © RIPRODUZIONE RISERVATA