Tutto passa velocemente ed è un ricordo sbiadito il dibattito sul progetto faraonico da oltre 197 miliardi come la grande occasione storica per ricostruire l’Italia dopo la pandemia. Della transizione ecologica, dell’innovazione, della coesione sociale e territoriale si sono perse le tracce. Il nostro Paese sta fallendo nel tradurre in pratica i progetti ipotizzati? La burocrazia italiana si è dimostrata incapace di reggere il peso della sfida: strutture lente, poco digitalizzate, prive delle competenze necessarie, spesso afflitte da una cultura del sospetto più che dell’efficienza. Le riforme promesse – semplificazione, giustizia, pubblica amministrazione – sono rimaste parziali o sono state affrontate senza convinzione. La governance del piano è stata deliberatamente confusa e opaca. A rendere tutto più difficile, è stata la totale assenza di coinvolgimento dei territori e delle comunità locali. Le risorse sono state calate dall’alto, con scarso ascolto e pochissima co-progettazione
◆ L’intervento di ALESSIO LATTUCA, presidente Movimento per la sostenibilità
►Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, figlio del Next Generation Eu, era stato salutato come la grande occasione storica per ricostruire l’Italia dopo la pandemia: un progetto faraonico da oltre 197 miliardi di euro, destinato a riformare in profondità il Paese sul fronte della transizione ecologica, dell’innovazione, della coesione sociale e territoriale. Eppure oggi, a distanza di anni, ci troviamo davanti a un paradosso: la più grande opportunità di trasformazione si è trasformata nell’ennesima occasione sprecata, tra ritardi, rimpalli di responsabilità e fondi inutilizzati. Il dibattito politico si è arrovellato per mesi sul “padre” del piano: Giuseppe Conte che lo ha avviato? Paolo Gentiloni che l’ha sostenuto in Europa? O Mario Draghi, che ha rivendicato la sua attuazione tecnica? Ma la vera domanda è un’altra: perché l’Italia sta fallendo nel metterlo a terra?
Le cause di questo fallimento sono molteplici, ma tutte riconducibili a una struttura di potere confusa, una macchina amministrativa inadatta e una politica autoreferenziale. In primo luogo, la burocrazia italiana si è dimostrata incapace di reggere il peso della sfida: strutture lente, poco digitalizzate, prive delle competenze necessarie, spesso afflitte da una cultura del sospetto più che dell’efficienza. Le riforme promesse – semplificazione, giustizia, pubblica amministrazione – sono rimaste parziali o sono state affrontate senza convinzione. In secondo luogo, la governance del piano è stata deliberatamente confusa e opaca. Dopo una prima fase di grande visibilità, il Pnrr è scomparso dai radar pubblici. Nessuno sapeva bene chi stesse realmente guidando il processo. La “cabina di regia” a Palazzo Chigi, teoricamente centro di coordinamento, è diventata un contenitore fumoso, dove si sono alternate voci e decisioni senza alcuna trasparenza. Il Pnrr è scomparso, per poi riemergere come un oggetto misterioso in fasi diverse, con esiti contraddittori.
Tra i protagonisti di questa gestione ambigua, spicca il ministro Fitto, che da responsabile delle politiche europee si è trasformato in commissario di fatto, più attento a riscrivere il piano che a realizzarlo. La sua azione si è distinta per continue revisioni, rinvii, scarsa comunicazione con i territori e una visione centralistica lontana dai bisogni reali del Paese. E, come se non bastasse, in questa giostra di incarichi e influenze, è comparso anche un personaggio esterno come Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia, senza alcun ruolo formale nel piano ma con un peso crescente nelle decisioni politiche. Un “signor nessuno” istituzionale, inserito in un contesto che avrebbe richiesto trasparenza, merito e competenze. Infine, a rendere tutto più difficile, è stata la totale assenza di coinvolgimento dei territori e delle comunità locali. Le risorse sono state calate dall’alto, con scarso ascolto e pochissima co-progettazione.
È presidente di Confimpresa Euromed, amministratore delegato Confidi per l’impresa e direttore generale Cofidi Scrl. Imprenditore agrigentino, si batte da anni contro il rigassificatore di Porto Empedocle (sua città natale), che definisce un “progetto folle”, a pochi passi dalla Valle dei Templi, a ridosso della casa di Luigi Pirandello in contrada Kaos.
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