I “migranti” sono solo 300 milioni su oltre 8 miliardi di individui nel mondo. C’è chi vuole investire molto nei paesi ricchi per barriere che ne frenino l’arrivo. Il nuovo governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, insediato nell’era Meloni sette mesi fa, nella sua prima Relazione annuale del 31 maggio, ha sottolineato il bisogno di accrescere negli anni a venire i flussi migratori per avere manodopera sufficiente nelle nostre aziende e nei servizi alla persona. Lo ha fatto da par suo, con garbo istituzionale e con sottolineature pregnanti: di migranti (“regolari”, ben s’intende) ne abbiamo bisogno. Punto. Le stime su quanti saranno nel prossimo futuro i migranti “poco regolabili” dai nostri bisogni previsionali sono discordi; due scritti su storia e ragioni dei popoli in movimento, analizzati da Guglielmo Ragozzino nel saggio breve che segue, fanno un po’ di chiarezza. Anche sul linguaggio: il saluto democratico: “ciao” è una corruzione del veneto “sciao” cioè “schiavo” 


◆ L’analisi di GUGLIELMO RAGOZZINO

Illustrazione dei “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni

«Arrivò da Venezia un altro editto, un po’ più ragionevole; esenzioni per dieci anni da ogni carico reale e personale ai forestieri che arrivassero ad abitare quello stato. Per i nostri era una nuova cuccagna». Presumo che tutte e tutti abbiano riconosciuto il passo che precede. Si tratta dell’ultima pagina dei “Promessi sposi” quando, dopo tanto tergiversare e scappare di qua e di là, le cose si sistemano per i nostri eroi; basta un po’ di immigrazione ed essi trovano oltre confine guadagno e naturalmente lavoro e vita serena. Alessandro Manzoni, I promessi sposi cap. XXXVIII.

Ma veniamo a noi, circa quattro secoli dopo. Contrariamente a quanto spesso si ritiene, i migranti ormai sono pochi, rispetto alla popolazione mondiale, quella che i demografi ottimisti prevedono possa arrivare in qualche decennio ai nove miliardi. Meno di 300 milioni, lontani da casa, tra il tre e il quattro per cento, in tempi traballanti come gli attuali. Sono compresi, nel conto dei migranti, tanto coloro che in futuro vogliono far ritorno, un giorno o l’altro, al luogo d’origine, quanto gli altri, decisi a fermarsi nella terra nuova e di continuarvi la vita.

Il motivo principale delle migrazioni, secondo lo schema abituale, è il lavoro. La mancanza di lavoro, la ricerca di un lavoro migliore, più libero, meglio retribuito, con prospettive vantaggiose. Questo almeno si ritiene con certezza, anche se si intrecciano di continuo altri problemi: sociali, politici, religiosi; e personali, come la mite Lucia (per non dimenticare il mitico Renzo) suggerisce. Essi riguardano in complesso cinquanta milioni di persone che ogni anno, in questo secolo, aspirano a trasferirsi; oltre venti milioni sono persone maltrattate e di fatto costrette ad andarsene, talvolta per sopravvivere in un modo decente. Tutto considerato, le prospettive di lavoro, più o meno soddisfacente, sono un aspetto della vita futura che ogni persona richiede per sé e per la famiglia, per sopravvivere e assicurarsi il necessario: per mangiare, avere un alloggio sicuro, vivere insieme alle altre persone conosciute, fare festa insieme, pregare insieme; e poi studiare, conoscere senza remore fatti e novità rilevanti.

Migranti negli Stati Uniti nel 1800

1. Nei secoli addietro i migranti sono stati spesso percentualmente più numerosi; su questo movimento di andare e venire, nel corso di millenni, secondo alcuni studiosi, si è anzi formata (e riformata) la storia del mondo. Oggigiorno però, in molti paesi ricchi, sempre o quasi sempre, vi sono forze potenti che si oppongono all’arrivo di altra gente, di migranti, come si dice adesso. Si vogliono difendere prerogative nazionali raccogliendo consensi su una linea semplice (e anche non difficile da spiegare: si tratta della preoccupazione di dover dividere, nei fatti, “la roba” con altri, venuti da fuori). A tale politica – le ultime decisioni europee sono esplicite in materia – si contrappone un’altra posizione, certo attualmente di minoranza, almeno in Italia, che raccoglie le persone convinte che esista un eguale diritto di ogni essere umano, sulla Terra comune; e che propone, come primo passaggio, la parità di stato di ogni creatura venuta al mondo in un dato territorio, quale che ne sia la madre. Insomma, si tratta del famoso ius soli, contrapposto allo ius sanguinis, predicato dagli avversari delle migrazioni. Questi ultimi si aggrappano al principio: “ognuno a casa sua e ci saranno meno problemi per tutti”. Non manca poi chi è nascostamente d’accordo, ma si vergogna di pensarla così, di farlo sapere e preferisce dissimulare, non prendere apertamente partito e trovare comunque delle scuse. Assicura gli astanti di essere ben favorevole all’arrivo di nuova gente, nuove forze; ma non sùbito, per favore; …vengano sì, in avvenire, purché si tenga conto che per ora l’accoglienza è impraticabile; e così via.

Nel futuro, nel prossimo secolo, si può prevedere che l’umanità comprenderà meno persone, per il calo della popolazione quasi dappertutto, nonostante la crescita attuale in due continenti del Sud della Terra, Africa e America Latina. Forse in un futuro più prossimo, a portata di vite umane, non ci sarà più paura o rifiuto della gente straniera e l’atteggiamento diffuso nei confronti dei migranti potrebbe perfino essere rovesciato, rispetto a quello prevalente nel 2024: improbabile, ma chissà. Tanto più… In un domani non troppo remoto, servirà importare lavori che in determinati paesi non si sanno fare, non si riesce a farli fare, o costano troppo. Forse la gente ricca finirà per disputarsi i migranti disponibili, il loro talento o anche il loro lavoro operaio o servile.

2. Un antefatto, quasi una premonizione, con decenni o secoli in anticipo, è già a ben vedere in corso da decenni almeno, nei nostri paesi ricchi, anche se si preferisce non farci caso: è il popolarissimo gioco del calcio, uno spettacolo molto amato nei nostri paesi, apprezzato da tutta la popolazione (o meglio da metà di essa e sopportato, con qualche affettuoso cedimento, dall’altra metà). Nelle squadre che partecipano a varie gare, di caratteristiche diverse, ma ben note agli appassionati, i cosiddetti campionati, sono compresi molti immigrati, di ogni origine e nascita, molto apprezzati e ben pagati; non solo, ma se qualcuno – tra gli spettatori o in campo – irride al loro aspetto diverso, al colore della loro pelle, è rimproverato e talvolta punito. Sono tre o cinque per ogni squadra, gli immigrati – di prima, seconda, terza generazione – a scendere in campo, in squadre di undici. I calciatori immigrati giocano talvolta meglio – oppure, a parità di bravura, costano spesso molto meno degli atleti “nazionali” – per cui sono convenienti, secondo le regole valide per ogni lavoro e in sostanza simili in ogni paese; il loro apporto è ben accolto, indispensabile, per così dire, per stare a galla, sarebbe meglio dire: stare in campo; per giocare a livello delle squadre avversarie, o addirittura meglio; per poter affrontare la concorrenza “sul mercato”, cioè compagini straniere o rivali con speranza di successo. Insomma, importare calciatori o più in generale atleti validi, anche in altre discipline sportive, vuol dire disegnare una società (una prospettiva di società) in cui gli stranieri sanno fare, aumentano la produttività aziendale, sono utili, ben pagati, accolti negli spazi dei migliori cittadini a tutti gli effetti. 

La nave albanese Vlora approda a Bari l’8 agosto 1991, partita da Durazzo con 20 mila persone a bordo

Sembra si possa ipotizzare una società futura in cui talenti stranieri, al di là dei loro eventuali tiri in porta e delle loro parate e dei tap-in, saranno indispensabili semmai per tutto il resto che hanno studiato e conoscono: nei laboratori, negli ospedali, perfino nei segreti penetrali della finanza. Non solo per il funzionamento, in fondo di secondario rilievo, di squadre calcistiche come Inter e Milan, ma per il funzionamento, per esempio, di aggregati più complicati, o decisivi, come Toscana o Piemonte o Svizzera. O perfino Stellantis.

3. Ma torniamo alle cose serie; può essere utile riflettere, tutti insieme, sul significato della migrazione, nel passato e nell’avvenire, e anche nell’oggi, un tempo in cui c’è ancora qualcosa da imparare. Nostra guida di riferimento un testo “Migrazioni” storia illustrata di popoli in movimento, un testo di Robin Cohen pubblicato dall’editore Giunti.

Testi analoghi non sono rari, ma quest’ultimo, nel ripercorrere un gran numero di spostamenti umani lungo i mari e le strade della Terra, illustra anche un rischio da sempre presente nella vicenda millenaria delle emigrazioni: la schiavitù. Persone umane – diverse all’aspetto dal “nostro aspetto”, di noi che siamo gente ricca, potente e armata – sono comprate, vendute e incatenate come animali. In “Migrazioni” sono rievocate le vicende delle conquiste, delle colonie, della “tratta”, sempre pensata per ottenere forza lavoro “servile” da utilizzare per il benessere, il guadagno o almeno per l’utilità o la comodità dei padroni. Schiavitù, servitù hanno pesato molto nella storia, non solo come forza lavoro a prezzo vile e in catene, ma anche, curiosamente, hanno avuto un compito nel linguaggio stesso. Una delle nostre espressioni più comuni, il saluto democratico: “ciao” è una corruzione del veneto “sciao” cioè “schiavo” che Pantalon de Bisognosi, Rosaura e Brighella si rivolgevano, arrivando in campiello o se si preferisce, in teatro, andando in scena. Più al Nord del Veneto, già nelle Valli alpine, le persone si salutano ancora dicendo l’una all’altra “Servus”. Non tutte hanno studiato il latino. Ma nel passato di molte persone c’è un ricordo ancestrale di una società costellata da “servi della gleba”— (1. continua domani) 

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Il saggio di Guglielmo Ragozzino è stato pubblicato il 17 maggio 2024 su “Sbilanciamoci – L’economia com’è e come può essere”, con il titolo “La ricchezza dei popoli, cuccagna dei migranti?”, che qui ringraziamo

Scrive attualmente su “il manifesto” e cura l’edizione italiana di “Le Monde diplomatique” e dei testi collegati, come gli “Atlanti” su geopolitica e ambiente. È stato redattore di “Problemi del socialismo”, la rivista di Lelio Basso, ha poi diretto “Fabbrica e stato”, rivista della sinistra sindacale e in seguito “Politica ed Economia”. Ha curato la pubblicazione di “Cent’anni dopo”, dialogo sulla Cgil tra Vittorio Foa e Guglielmo Epifani (edizioni Einaudi, 2006) e inoltre ha scritto, insieme a Gb Zorzoli, un libro sul petrolio, “Un mondo in riserva” (Franco Muzzio Editore, 2006).

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