«Le morti di Kennedy e di Moro, l’11 settembre 2001 e il 7 ottobre 2023: quattro eventi in cui le narrazioni del Potere sono fotografie sfocate, poco convincenti. Ma noi sappiamo altre cose, possiamo non farci prendere in giro da questo o da quel Potere quando decide di riscrivere il presente». Un’analisi “dissonante” su come “fare la tara” a quel che cucina giornalmente il pasto mainstream sui fatti del mondo che ci incatenano, ieri come oggi, a “verità ufficiali” come “il moschetto del Duce” sull’uccisione di John F. Kennedy. A proporla è un acuto “cane sciolto di sinistra” − come si autodefinisce Guglielmo Ragazzino − che sa produrre argomentazioni pregnanti e mai scontate sulle pagine de “il manifesto” ed altri giornali fuori dal coro e “senza collare”
◆ L’analisi di GUGLIELMO RAGOZZINO
► Tonto è chi crede a tutto quello che s’inventano i Potenti, per far bella figura, o per mostrare la propria forza? Per nascondere l’insuccesso, la ridicola sconfitta? Oppure è tonto quello che nega tutto, non crede, è certo del complotto pieno di misure segrete che si sapranno domani, se si avrà fortuna o il Potere cambierà di mano? Due posizioni limite, che esistono, ma sono carenti entrambe. Solo aiutano a tirare avanti, perché è più facile vivere accontentandosi di ciò che si sa. Nella politica, soprattutto quella internazionale, capitano occasioni in cui noi, persone comuni, finiamo per credere a ogni cosa ci viene suggerita o propinata. I Potenti hanno spesso inserito un “aiuto” di mezzi e agenti per confondere il pubblico e rendere accettabile (o anche obbligatorio) quel che le persone normali avrebbero altrimenti rifiutato. Il fatto è che per vivere c’è bisogno di un livello minimo di certezze – leggende o miti, trucchi, falsità, imbrogli che siano, perché altrimenti è a rischio la nostra necessità/capacità di credere, un’essenza di vita irrinunciabile. Per quieto vivere, o per tirare avanti, rimandiamo la prova, per poi dimenticare, di fronte a un altro fatto maiuscolo.
Nella seconda metà del ventesimo secolo vi sono due avvenimenti che hanno dato luogo a molta incertezza tra le popolazioni istruite, presenti nel micromondo del benessere occidentale. Altri due seguiranno in questo secolo (e millennio) e li indicheremo per ora con due date: 11 settembre 2001 e 7 ottobre 2023: e saranno avvenimenti mondiali. In tali due casi i Poteri – per non dire il Potere, sia pure con un briciolo di ulteriore cedimento al più conosciuto dei complotti segreti, quello del Verbo unificato dell’altissima finanza, per non dire addirittura dei Savi di Sion ammodernati, si sono dati da fare. In tali casi infatti, due riconoscibilissimi governi, Usa e Israele, hanno forse facilitato gli attacchi terroristici di loro nemici irriducibili, per poi passare “legittimamente” a terribili reazioni che costituivano effettivamente il loro intendimento. Torniamo però ai casi enormi del secolo scorso. Il primo è stato l’assassinio di Jfk – il presidente Usa John Kennedy – il 22 novembre del 1963, a Dallas negli Usa. Il secondo è stato il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, 15 anni dopo, tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, l’inizio e la fine degli indimenticabili 55 giorni (come furono chiamati). Davvero indimenticabili? Sembra a volte che ci ricordiamo del nostro passato pochissimo e male.
1. Nel caso di Kennedy, i risultati della Commissione Warren, preposta alla ricerca della Verità non convinsero che pochi, abituali sostenitori di ogni dichiarazione delle autorità. Si scherzò molto sull’antico fucile, italico e quasi risorgimentale – “il moschetto del Duce”, è stato definito – un Carcano un po’ modificato, capace di sparare colpi a ripetizione e in tempi assai ristretti; e sulla di lui pallottola, capace di cambiare due o tre volte direzione per svolgere – con disciplina e onore – il compito assegnatole: uccidere il presidente e ferire il governatore del Texas. Il risultato nascosto era decisivo: far di tutt’erba un fascio del kennedismo, annessi e connessi, e farne un grande falò, accompagnato da danze rituali di amici e nemici, dem e rep. A ricordo del grande capo, bello, ricco, amato da tutte le donne, amante della Pace e del Progresso. Un po’ troppo, in una volta sola.
2. Più facile, a prima vista, il caso Moro, rapito e poi ucciso da un gruppo di militanti ben noto: le Bierre. Non si perse tempo a discutere se le Bierre fossero o meno l’espressione estremistica di una visione del mondo, tutto il mondo, che poco dopo fu chiamato “sessantotto”. E neppure di una propaggine della imperante altra divisione del mondo, allora di moda, detta “Guerra fredda”. La discussione che coinvolse tutti in Italia, si imperniò allora su una questione che vista adesso sembra marginale, la cosiddetta “trattativa”. Trattare per la vita e la libertà di Moro con i suoi rapitori? Il campo si divise subito tra chi era favorevole a trattare e chi contrario. Sbrigativamente erano contro la trattativa con le Bierre (perché si riteneva che così quel gruppo avrebbe ricevuto una sorta di consacrazione) i maggiori partiti, democrazia cristiana e partito comunista, il governo e l’opposizione, spalleggiati da tutti gli apparati – ministeri, giornali, ecc., collegati con essi. A favore della trattativa erano socialisti, sinistra varia, e noi, cani sciolti. Fin qui la trattativa “figurata”.
Quella vera – ci fu raccontato molto dopo – era un po’ diversa, meno variopinta. Da una parte, per Moro, era lo Stato. Posto però che a trattare da una parte fosse lo Stato, per la salvezza del suo esponente, chi era la controparte? Figurativamente la controparte dello Stato erano i rapitori, le Bierre. A rigore di logica anche le Bierre non potevano che essere favorevoli alla trattativa. Perché mai altrimenti lo avrebbero tenuto in vita se non per “trattare”? Avrebbero chiesto ovviamente ben di più di ciò che lo Stato fosse disposto a concedere, in prima battuta, ma della trattativa erano a favore. Vista così, la discussione sulla trattativa cambiò oggetto: nel mondo delle persone normali, coinvolte nella vicenda umana del rapito, nei giornali, che anch’essi auspicavano complessivamente il lieto fine, la trattativa significava la vittoria della vita.
Questa sembra essere diventato, nei frenetici giorni del maggio 1978, il patteggiamento vero, secondo la ricostruzione di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore in quello e in vari altri casi molto importanti della nostra storia e poi senatore della sinistra politica che nel suo ultimo libro sul caso Moro, “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia”, XIII edizione 2013, dava per certo che attraverso i “servizi”, Cossiga, ministro dell’Interno, poi premiato a capo del governo e Presidente della Repubblica, era in qualche modo a conoscenza di dove Moro era prigioniero, Via Montalcini, ma fosse contrario a disporre della sua liberazione, convinto dal suo gruppo di consiglieri – fossero il famoso uomo di Kissinger, Steve Pieczenick, oppure gente di Gladio, della P2, dei servizi tedeschi di Stasi e di Raf (Rote Armee Fraktion), dell’alleato americano, o di tutti insieme, riuniti in una conventicola dagli incerti confini – a non peggiorare le cose con una eventuale sparatoria.
Per essere più precisi, il mondo di allora, incombente la guerra fredda, aveva da una parte e dall’altra, grandi progetti, democrazia e comunismo, spesso concorrenti, più spesso ancora decisi a non infastidirsi, a darsi una mano; e Moro che procedeva contro mano, era malvisto di qua e di là; e di qua e di là volevano farlo fuori, per poi, risolta quella bagatella, continuare, nemici come prima, la consueta, schietta e tuttalpiù sleale partecipazione alla guerra fredda. — (1. continua domani sull’11 Settembre e il 7 Ottobre)
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Questo articolo è stato pubblicato dalla testata online “Sbilanciamoci.info” lunedì 16 giugno che qui si ringrazia