Gli ingredienti per imbastire un intrigante dialogo sul Sud ci sono quasi tutti: Medioevo, odore di incenso e fruscio serico di tonache, scuola, grande cultura, e, perfino Federico II e le sue “Constitutiones”. Con questa premessa, e volendo parlare del Sud (ora sotto l’attacco dei Galli Cisalpini, per oscure glosse di autonomie regionali), c’era una, e una sola persona, cui chiedere lumi. Perciò, viaggio a Massafra, e richiesta di udienza ad un grandissimo “sacerdos”: della Divinità, della cultura, della scuola, del Medioevo, del lavoro, dell’ambiente e di questo nostro Sud. Don Cosimo Damiano Fonseca. Prima che la sorella, la professoressa Comasia, mi introduca al cospetto dell’accademico dei Lincei, faccio in tempo a dirvi che il nostro professore… Uno sguardo sbieco del nostro Magnifico, mi fa capire che questo mio «scolio descrittivo» non deve essergli piaciuto poi tanto. Meglio fermarsi qui ed entrare subito in argomento. «Ti racconto un piccolo episodio», si addolcisce…
Il racconto di ARTURO GUASTELLA, nostro inviato nella Magna Grecia
“A LINGUA CHIARA, non far oscura glossa”. A quello che per se stesso è già evidente, non cercare di spiegarlo con interpretazioni oscure. E siamo entrati di prepotenza, nel linguaggio giuridico medievale. L’incipit virgolettato, infatti, è un brocardo. Una massima, cioè, per lo più latina, che i giuristi medievali usavano per esprimere un concetto giuridico. Medio Evo, dunque. Ma ancora non basta. L’etimo del termine, “brocardo”, si deve ad una grande tonaca, il vescovo Burcardo di Worms, vissuto tra il 950 e il 1025, che, cultore di leggi e della lingua di Cicerone, volle raccogliere nel suo “Regulae Ecclesiasticae”, un gran numero di locuzioni giuridiche latine. Subito dopo, fu addirittura una scuola, quella dei “glossatori di Bologna”, ai quali, sembrando che quello del vescovo di Worms, fosse un esempio da seguire e, anzi, da approfondire e allargare, per dare una svolta a quella cultura giuridica, che nei secoli precedenti e fino ad allora, sembrava essersi del tutto smarrita, si diedero a raccogliere e a codificare, quanti più “brocardi” possibili. Qualche storico (il solito glossatore dell’ovvio) ha fatto notare che i “brocardi” dei glossatori bolognesi, erano stati in massima parte estrapolate da quella straordinaria compilazione di diritto latino, che Giustiniano aveva raccolto nel suo “Corpus iuris civilis”.
Comunque sia, gli ingredienti ci sono quasi tutti: Medioevo, odore di incenso e fruscio serico di tonache, scuola, grande cultura, e, perfino Federico II e le sue “Constitutiones”. Con questa premessa, e volendo parlare del Sud (ora sotto l’attacco dei Galli Cisalpini, per oscure glosse di autonomie regionali), c’era una, e una sola persona, cui chiedere lumi. Perciò, viaggio a Massafra, e richiesta di udienza ad un grandissimo “sacerdos”: della Divinità, della cultura, della scuola, del Medioevo, del lavoro, dell’ambiente e di questo nostro Sud. Don Cosimo Damiano Fonseca. Per quei quattro o cinque che non avessero sentito parlare di lui, si tratta di un medievista di fama mondiale, un accademico dei Lincei, del maggior studioso di Federico II degli Svevi, dei Normanni, degli Angioini, dei Longobardi e, qui mi fermo. Senza non prima aver detto che si tratta dell’ideatore e realizzatore dell’Università della Basilicata e suo Rettore Magnifico per più di tredici anni, di colui che ha istituito la Scuola di Specializzazione a Lecce e, poi, a Matera. Ma quello che pochi sanno, ed è davvero un gran peccato (non da confessionale, beninteso), è che il prof. Fonseca è anche uno straordinario meridionalista, tanto che negli anni ’70 del secolo scorso, i suoi interventi erano puntualmente e periodicamente pubblicati sul “Messaggero”, con grande soddisfazione del direttore dell’epoca, Vittorio Emiliani (e dei lettori, naturalmente), che da allora ha intrattenuto rapporti di grande amicizia, con “Don Cosimino”.
Prima che la sorella, la professoressa Comasia, mi introduca al suo cospetto, faccio in tempo a dirvi che il nostro professore si è laureato in Teologia a Roma e in Filosofia alla Cattolica di Milano e che a soli trentadue anni, nel 1964, va in cattedra come docente di Storia della Chiesa, e subito dopo, ottiene, da vincitore di concorso, la cattedra di Storia medievale all’Università di Padova. E, poi, negli Atenei di Milano, Brescia, Bari, Lecce, e, poi, riconoscimenti e inviti da Università di mezzo mondo: da Barcellona a Istanbul, Varsavia, Poitiers, Stoccarda, Atene, il Cairo, Beirut, Buenos Aires, Saint Andrew. «Eccetera, eccetera, eccetera», mi stoppa, il mio carissimo Don Fonseca, rimproverandomi come questo accenno di dialogo, «lo stai trasformando in uno sproloquio celebrativo». Dunque, devo tacere che, a proposito di ambiente, lei è stato presidente pugliese di Italia Nostra e vicepresidente nazionale, con Giorgio Bassani presidente? «E, intanto lo hai detto. Ma non dovevamo chiacchiere di Sud e della nostra gente?». Certamente, monsignore, ma partiamo da lontano. La gente, i suoi studenti, i suoi colleghi, ma anche io stesso, la immaginiamo come una sorta di “icona culturale trascendente”, ben conscio dei problemi della quotidianità, delle angustie del tirare a campare, ma alquanto distante da essi. Sublimati, forse, come “tipici esemplari dell’antropologia esistenzialistica” del filosofo-sociologo tedesco Jurgen Habermas, che, mi risulta, da lei molto letto. «Ma di che vai blaterando — mi bacchetta — forse hai dimenticato che i problemi del lavoro, del pane quotidiano, della fatica di vivere, io li conosco e li frequento, fin dalla primissima infanzia?».
«Ti racconto un piccolo episodio», si addolcisce. «Devi sapere che da bambino ero un’autentica peste, facendo disperare i miei genitori che, non appena mi perdevano di vista, insieme ai miei compagni Nicola Andreace e Censino Catucci, che, ahimè, entrambi non ci sono più, scomparivamo nelle gravine, facendo sgolare le nostre mamme e aumentare il cipiglio dei nostri genitori». «Così — continua — quando a cinque anni mi iscrissero alle elementari, il mio maestro, l’indimenticabile Mimì Gallo, propose ai miei genitori di portarmi con sé anche nel pomeriggio, nella scuola serale dove insegnava». E immaginatevelo con me, a questo punto, il nostro illustre cattedratico, bimbetto coi calzoncini corti e le bretelline, fatto sedere nei banchi, fra i lavoratori di trenta, quaranta e passa anni, che cercavano faticosamente di prendere almeno la licenza elementare. Uno sguardo sbieco del nostro Magnifico, mi fa capire che questo mio «scolio descrittivo» non deve essergli piaciuto poi tanto. Al mio contro sguardo mortificato, si riappropria del suo sorriso e continua.
«Una sera, mentre eravamo nel bel mezzo di una lezione, il bidello, con fare preoccupato, annuncia al maestro che è venuto all’improvviso un ispettore scolastico, per saggiare, con qualche domanda, il grado di preparazione degli studenti-lavoratori. Panico fra gli studenti e imbarazzo del maestro Gallo per avere in classe un bambino come me. E allora, non trova di meglio che nascondermi sotto la cattedra, intimandomi di stare zitto e non fiatare». L’ispettore, proprio come il Chlestakov di Nikolai Gogol, lancia un severo sguardo circolare in giro e, poi, salito in cattedra a fianco del maestro Gallo, comincia a fare domande. A qualcuna di queste, gli studenti-lavoratori rispondono, sia pure balbettando, finché l’ispettore non ne fa una abbastanza tosta. «Silenzio di tomba — ricorda il monsignore — con il mio caro maestro che immaginavo in difficoltà per non avere adeguatamente preparato i suoi allievi». «Finché — sorride l’eccelso medievista — una vocina, uscita da chissà dove, non diede all’Ispettore Generale, la risposta esatta». Quale era la vocina e la risposta? Ve lo racconterò la prossima volta. — (1. continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA