L’azione militare su vasta scala di Hamas capovolge nel modo umanamente peggiore una situazione di indifferenza crescente per la questione palestinese. Lo fa secondo le atroci modalità del terrorismo: uccisioni di famiglie inermi date addirittura alle fiamme nei loro kibbutz, bambini decapitati e la barbarie dell’incrudelire, torturare e sequestrare quei ragazzi che, da tante parti del mondo, si erano riuniti per un rave party. L’orrore per le atrocità di Hamas e la realtà tremenda che esibiscono non consentono però di liquidare quegli attacchi come semplice azione terrorista. Sarebbe una grave sottovalutazione. E fatale sarebbe affrontare il conflitto sul piano “religioso”, dello “scontro di civiltà”. Ecco perché


◆ L’analisi di MASSIMO SCALIA

Ho sempre guardato con un certo fastidio i kalashnikov minacciosamente branditi dai miliziani palestinesi in ognuno dei tanti funerali celebrati a Gaza per i dirigenti dell’Olp, o anche per i tanti civili uccisi nelle tante rappresaglie israeliane. Fastidio per la disparità, per quel surrogare con la mimesi l’azione, che tale diventava solo con la partecipazione popolare alle Intifade, quali si sono succedute a partire dalla prima nel 1987. E quel fastidio per il “chiacchiere e distintivo” dei kalashnikov, nella già ricordata disparità e nell’indifferenza crescente al problema israelo-palestinese, era alimentato dal ricordo della colossale occasione “persa” da Arafat davanti al piano proposto, sotto la seconda Amministrazione Clinton. Prevedendo un fondamentale reintegro ai Palestinesi di gran parte dei territori, occupati da Israele nell’inosservanza di quasi tutte le risoluzioni dell’Onu dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, era la base della trattativa più favorevole che i Palestinesi potessero sperare nella prospettiva “due popoli, due Stati”. Arafat non aveva accettato quel piano per mantenere il comando dell’Anp (Autorità nazionale palestinese), ché sarebbe stato pesantemente contestato fino alla rottura dall’ala più estremista. E l’“affetto” per detenere quel comando non era però solo una questione di potere politico, ma riguardava anche il tesoro accumulato, come fu reso chiaro dall’immediato accorrere dei dirigenti Anp non solo certo per i funerali di Arafat a Parigi, ma per discutere con la vedova di questioni meno “nobili”. 

I militari israeliani portano via le salme dal kibbutz Kfar Aza lungo il confine con la Striscia di Gaza; sotto il titolo, feriti israeliani soccorsi dopo l’attacco di Hamas e una strada di Gaza dopo un bombardamento aereo

Mancata quell’occasione storica e nell’indifferenza crescente, a partire dai Paesi arabi, per la questione palestinese ecco la nevrosi dei kalashnikov, ciclicamente branditi a rimuovere la frustrazione. L’azione militare su vasta scala di Hamas capovolge in qualche modo quella situazione. Nel modo umanamente peggiore secondo le atroci modalità del terrorismo: uccisioni di famiglie inermi date addirittura alle fiamme nei loro kibbutz, bambini decapitati e la barbarie dell’incrudelire, torturare e sequestrare quei ragazzi che, da tante parti del mondo, si erano riuniti per un rave party, per divertirsi come fanno i giovani. L’orrore per le atrocità di Hamas, per tutte quelle immagini e la realtà tremenda che esibiscono non consentono però di liquidare quegli attacchi come semplice azione terrorista. Sarebbe una grave sottovalutazione. Il primo a non farlo è stato proprio il premier Netanyahu, che superando coraggiosamente diffuse ipocrisie, ha detto con chiarezza che “Israele è in guerra”, seguito dal Governo e dalla Knesset. È la prima volta, mai al terrorismo era stato riconosciuto il ruolo di nemico militare. Ai tempi del “califfato” di Abu Bakr al Baghdadi e della pretesa dell’Isis di costituire uno Stato con tanto di territorio, si era parlato e speculato sui conflitti “asimmetrici”, ma nessuno Stato aveva “dichiarato guerra” al presunto “Stato islamico”. Ora, invece, Netanyahu e Israele impongono una necessaria chiarezza, e il parlare apertamente di guerra segna una differenza fondamentale rispetto al sanguinoso tran-tran al quale ci aveva abituato una colpevole pigrizia. Una differenza che getta ulteriori ombre sul complesso nodo di relazioni diplomatiche e politiche che hanno sempre caratterizzato le questioni del Vicino Oriente, un nodo che è proprio il caso di definire “gordiano”. Tutte le politiche di potere “imperiale”, tutte le strategie sviluppate per far fronte allo scellerato conflitto scatenato da Putin vanno ora completamente ridefinite di fronte alla guerra scatenata da Hamas e all’emergere, senza più veli, del ruolo determinante dell’Iran, che, oltre tutto, esporta così i suoi problemi all’estero. E un attacco al nord di Israele, che sarebbe ottimistico dare per evitato, aggraverebbe ulteriormente un quadro già oltremodo preoccupante.

Sì, Israele ha gravemente sbagliato strategie politiche e praticato atteggiamenti oltranzisti, favoriti da una destra di estremisti religiosi al Governo, al punto da obnubilare le stesse notorie capacità di intelligence dei suoi Servizi. Ma accanto a Israele hanno sbagliato in tanti, quelli che hanno da molti anni girato la testa per non guardare con occhi attenti il perdurare delle tensioni e le radici del conflitto israelo-palestinese.

La guerra si allargherà, importante è che Israele non accetti il piano “religioso”, di scontro di civiltà, sul quale puntano Hamas e l’Iran. E risuona contro tutti i fondamentalismi religiosi alimentati dall’“unico Dio”, il monito che contro l’esclusivismo monoteista Jan Ansmann lanciò con il suo “Non avrai altro Dio”. Difficile pensare che l’occupazione di Gaza da parte dell’esercito israeliano possa durare a lungo, anche per i costi che essa comporta; ma sta a Israele mostrare che sa rispettare quelle regole minime che però vigono anche nelle guerre, non contraccambiando in Gaza le atrocità terroristiche di Hamas. Fondamentale, a questo punto, è battere tutte le strade che impediscano che il conflitto vada completamente fuori controllo e si inviluppi con la guerra in Ucraina, in uno scontro che coinvolga l’Europa e forse anche la Cina. 

In questo difficilissimo compito una pista decisamente falsa è quella che risuona in molti talk show: “Isolare Hamas rispetto al popolo palestinese, con l’aiuto dei Paesi arabi moderati”. Hamas è la risposta militarmente organizzata alla frustrazione ultradecennale del popolo palestinese, più credibile ahimè dell’Anp, anche perché nella striscia di Gaza ha garantito un’efficace presenza di aiuti sanitari e di assistenza sociale. E i Paesi arabi “moderati” si sono spesso distinti per la loro ambiguità, a usare un eufemismo, sia nei confronti dei Palestinesi che del terrorismo jihadista. Spetta allora all’Unione europea il difficilissimo compito, in unione agli Stati Uniti che sono la potenza egemone, sicuramente in questo teatro di guerra. L’auspicio è che la Ue trovi, nell’impegno ad affrontare il rischio di una situazione – guerra in Ucraina, guerra in Israele – che la coinvolge in modo pesantemente diretto, quella dimensione politica, che, schiacciata dalla fedeltà alla Nato, ma anche da sé stessa, è però necessaria per il difficilissimo compito. Unione europea e Stati Uniti, uniti nella lotta? Un realismo per fronteggiare una situazione esplosiva, che può far rabbrividire qualcuno, sicuramente quei “monoteisti” che coltivano le esclusioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Scienziato e politico, leader del movimento antinucleare e tra i fondatori di Legambiente. Primo firmatario, con Alex Langer, dell’appello (1984) per Liste Verdi nazionali. Alla Camera per i Verdi (1987-2001) ha portato a compimento la chiusura del nucleare, le leggi su rinnovabili e risparmio energetico, la legge sul bando dell’amianto. Presidente delle due prime Commissioni d’inchiesta sui rifiuti (“Ecomafie”): traffici illeciti nazionali e internazionali; waste connection (Ilaria Alpi e Miran Hrovatin); gestione delle scorie nucleari. Tra gli ispiratori della Green Economy, è stato a fianco della ribellione di Scanzano (2003) e consulente scientifico nelle azioni contro la centrale di Porto Tolle e il carbone dell’Enel (2011-14). Co-presidente del Decennio per l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile dell’Unesco (2005-14). Tra i padri dell’ambientalismo scientifico, suo un modello teorico di “stato stazionario globale” (2020) (https://www.researchgate.net/profile/Massimo-Scalia)

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