È impossibile che agli effetti collaterali “particulari” del secondo successo nella guerra di Putin non ci abbiano pensato quel furbacchione madonnaro di Salvini, l’astioso Conte e il fimminaro capo Berlusca. Ma questa è un’altra storia. Tra i vari elementi affacciati durante la crisi c’è quel circa dieci per cento di cittadini italiani che vive sulla soglia di povertà. O sotto. È una costante storica da quarant’anni almeno. E nessun governo dei tanti succedutisi ha mai assunto questa vergogna come svolta per una grande riforma sociale. Nessuno ci ha mai provato: avanti con un po’ di elargizioni e al resto ci pensi Caritas et similia. “Semper habebit pauperes” è stato detto da uno che conosceva la materia, accreditato addirittura di aver dato la vita per riscattare tutto il genere umano. Ma il ridurre sensibilmente quel 10% dovrebbe essere il sacramento di un riformismo che non si fa surrogare dalle opere buone, dalle buone intenzioni o dalle omelie di qualche bravo vescovo. E, in tutto questo, che c’entra Mario Draghi?
L’articolo di MASSIMO SCALIA
A CAMERE SCIOLTE, più dell’inevitabile chiacchiericcio sul futuro può forse tornare utile guardare ai temi su cui si è determinata la crisi, non tanto ai pettegolezzi dei retroscena, quanto, magari, ad alcune riflessioni e dati che sono circolati. Sgombriamo subito il campo dalla considerazione, verissima ma banale, che la crisi politica italiana è stato il secondo successo nella guerra di Putin — da qui, anche, l’allarme internazionale in Occidente — e che, nel Paese degli “apoti”, è impossibile che a effetti collaterali “particulari” di questo successo russo non ci abbiano pensato quel furbacchione madonnaro di Salvini, l’astioso, non del tutto ingiustificatamente, Conte e, anche per il fascino delle serate artistiche nella dacia, il fimminaro capo Berlusca. Ma questa è un’altra storia, che varrà forse riprendere in seguito. Ce n’è di tempo da qui al 25 settembre!
Il discorso sulla fiducia di Draghi, intrecciato col numero vertiginoso di telefonate tra tutti, Mattarella incluso, ha colpito per il tono tranchant, ultimativo del premier — l’opposto di quanto vaticinato dai consueti commentatori di regime (mediocratico). È stato di una chiarezza palmare: al Paese, agli Italiani serve il completare con determinazione i provvedimenti più importanti ai quali abbiamo cominciato a dare mano, decentemente. Il percorso successivo è, per i vari motivi a tutti noti, tutto in salita e serve una classe politica capace di anteporre con nettezza gli interessi generali di tutti a quelli di parte. Se mi volete seguire su questa strada, bene. Se no, andate a ramengo!
Inutile dare contentini ai penultimatum di questo o quello, ma qui, in queste condizioni drammatiche, c’è una fondamentale riforma sociale da fare. Questo lo dico io, perché tra i vari elementi affacciati durante la crisi c’è quel circa dieci per cento di cittadini italiani che vive sulla soglia di povertà. O sotto. È una costante storica da quarant’anni almeno, da dopo il “miracolo” dello sviluppo economico, che benefici generali ne ha apportati tranne, appunto, che per quel 10%. E nessun governo dei tanti succedutisi ha mai assunto questa vergogna come svolta per una grande riforma. Da attuare sul territorio, sull’efficientamento della Pubblica Amministrazione e dei suoi servizi, su una “manutenzione” del sistema Paese così capillare da raggiungere i singoli, le persone. Difficile, ma nessuno ci ha mai provato, avanti con un po’ di elargizioni e al resto ci pensi Caritas et similia.
Non esito a dire che nelle parole ultimative del premier ai partiti — che “populista elitario”! — c’era proprio l’orizzonte di una grande riforma sociale che svincolasse dalla retorica delle cose non fatte il “non lasciare indietro nessuno”. Intendiamoci, “semper habebit pauperes” è stato detto da uno che conosceva la materia, accreditato addirittura di aver dato la vita per riscattare tutto il genere umano. Ma il provarci, il ridurre sensibilmente quel 10% dovrebbe essere il sacramento di un riformismo che non si fa surrogare dalle opere buone, dalle buone intenzioni o dalle omelie di qualche bravo vescovo. E che c’entra Draghi, il tecnocrate, il “banchiere”? Lo stilema del “banchiere” lasciamolo ai “fasci”, agli anatemi dal balcone di piazza Venezia contro le “plutocrazie” corruttrici. Preferisco il ricordo dell’educazione scientifico-politica impartita al Draghi allievo da Federico Caffè, l’omino che è stato ai tempi belli un riferimento per le politiche economiche e sociali della sinistra pensante — c’erano pure i capi sindacali! — e agente. E, per venire a tempi assai più recenti, Draghi ha combattuto, vincendo, lo sterminio di massa dei poveri, e dei ceti medi, operato dall’Austerity, che aveva purtroppo portato la Grecia al massacro economico e sociale. Una battaglia epocale contro il terrore per l’inflazione, storico, dei Tedeschi e contro il rigore da “Sturmtruppen” della Deutsche Bank, tesi a impedire o ritardare l’attuazione del Quantitative easing (marzo 2015). Una colossale breccia che, Covid favente, ha portato al primo grande progetto comune di “solidarietà” economico-sociale della Ue: il Recovery fund. C’è un risultato “di sinistra” di analoghe dimensioni e implicazioni? Sul quale, è giusto ricordarlo, s’impegnò all’arma bianca, con la necessaria durezza contro i soliti “rigorosi”, il premier Conte prima di diventare “Giuseppi”. Già, ma questo è un Paese così impegnato a “non bersela”, da bersela spesso, la memoria.
Siamo “atlantici” dai tempi di De Gasperi, l’anti-atlantismo è stato un appannaggio monoculare del Pci, che non ci vedeva dall’occhio delle bombe atomiche e dei missili di Mosca. Che, poi, la Nato sia un’appendice dell’aggressivo espansionismo militare Usa ha trovato decadali conferme, e opposizione, nei vari angoli della terra. “Accettare” non è davvero un titolo di merito, e cercare di avere un ruolo che non si riduca al “bacio della pantofola” è quel che Draghi ha provato dignitosamente a fare.
Allora, Draghi santo subito! Per eventuali canonizzazioni penserei, caso mai, al primo Governo Prodi. Il grave errore di Draghi, tipico degli economisti, è stato non capire che priorità politica dell’oggi, anzi dello ieri, è, dati alla mano, la riconversione ecologica dell’economia e della società. Il suo maestro si schermì, modesto come sempre — “non è la mia partita, ho studiato e fatto ricerca su altro” — quando gli chiedemmo di fare da apripista su questo terreno, lasciando a noi, Gianni Mattioli e me, un po’ delle sue ore di lezione e qualche tesi da seguire, quasi una riparazione al suo diniego. Ma, accidenti! sono passati 40 anni e troppe campane a martello sono suonate per dire che il feticcio della crescita illimitata uccide l’ambiente. E l’uomo. Come si fa a lasciar fare la politica energetica al predatore Descalzi e a mettere la “transizione energetica”, la delicatissima partita energia/clima, nelle mani inette di Roberto Humpty Dumpty Cingolani [leggi qui], che poi di mani non ce ne ha! Draghi, che, pure, aveva detto con placida nettezza che bisogna sapere scegliere tra un paio di gradi in meno di riscaldamento e gli aiuti all’Ucraina, e che ha insistito fino all’ultimo per un price cap sui combustibili fossili, gas in testa, mentre i “rigorosi” se la facevano sotto per le possibili ritorsioni di Putin. Determinando quella prima vittoria di Vlad il Terribile, con il voto del 6 luglio che, spaccando il Parlamento Ue, promuove nucleare e gas in tassonomia “verde”.
Ed ora? Col Draghi detronizzato riparte il ritornello dell’autunno caldo. Sarà proprio così? Se avete un po’ di pazienza, lo vediamo meglio domani. (1- continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA