Nel suo cammino pastorale e nei dodici anni del suo magistero pontificio, Bergoglio ha saputo aprire porte e finestre ai dubbi del mondo e alle certezze (pur provvisorie) della Scienza. Ha prestato ascolto alla voce degli ultimi e all’impegno dei tanti — credenti o atei, agnostici (come chi scrive) o laici (di ogni ordine e grado) — che non volgono altrove lo sguardo, di fronte a ingiustizie e violenze. L’opposto di quel che un protocollo ingrato gli ha imposto, come ultimo incontro pubblico, di ricevere il messaggero al curaro di Donald Trump. Se n’è andato un Papa che mancherà decisamente di più a mangiapreti col cuore e la mente aperta che a paurosi baciapile, nostalgici di sedie gestatorie e scarpe rosse. E si può anche aggiungere: missione quasi compiuta… Quasi. Se non ci fosse al comando del mondo — andato ora via Francesco — un gruppo di delinquenti sempre più fuori di testa


◆ L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ

Davanti alla notizia che zittisce almeno per un attimo il mondo intero, ragione e cuore si rifiutano di commentarla. In questi casi dovrebbe bastare, di per sé, lo sconcerto che ti si stampa sul volto e pretende il silenzio assoluto. È successo ieri mattina intorno alle dieci anche a me. La notizia della morte di Papa Francesco mi è giunta, per pura casualità, a Viterbo, “la Città dei Papi”. A darmela, per di più, è stata la voce di un cattolico tradizionalista che, personalmente, ignoravo fosse tale. Le sue parole esprimevano «dolore per l’uomo Bergoglio, non per Papa Francesco». Non c’era alcun bisogno di doverlo specificare, se non il sincero moto del cuore, presumo, del mio interlocutore. «Non era il mio Papa. L’ultimo per me è stato Ratzinger». Parole quasi identiche che mi furono dette pochi anni fa da una madre badessa delle Cappuccine attraverso le grate della clausura. Stavolta sono quelle di un uomo maturo, colto, di modi signorili, professionista affabile e cordiale. «Cattolico praticante», ci tiene ad aggiungere, col dispiacere di vedere le chiese vuote: «Anche ieri, per la messa di Pasqua, eravamo in pochi e tutti della mia stessa età». La colpa, per lui, era attribuibile a un Papa come Francesco, «bene che vada, un parroco di Buenos Aires».

Papa Roncalli, Giovanni XXIII

In un lampo, la mente è cominciata a correre alla seconda volta che sono entrato in Vaticano, a parte i Musei e la Cappella Sistina che ebbi il privilegio di visitare “in solitaria” con una guida d’eccezione, il tecnico che aveva progettato e realizzato il nuovo impianto di illuminazione degli affreschi con i led a risparmio energetico. La prima volta era stata sessant’anni fa; ero un pre-adolescente intruppato fra i più bravi catechisti che avevano vinto il concorso per essere portati in visita a San Pietro, al cospetto del Papa Buono, Giovanni XXIII. Papa Roncalli mi passò davanti sul serio e, dalla sedia gestatoria, aveva uno sguardo tenero, buono: da lassù quello sguardo sembrava rivolto a te soltanto. Sì, c’era stata anche un’altra occasione, per filmare e raccontare su “Ambiente Italia” per Rai 3 la copertura con pannelli fotovoltaici disegnati apposta per la Sala Nervi, regalo di una ditta tedesca a Papa Ratzinger. O un convegno su “Acqua è vita” per Tv7, il settimanale di approfondimento del Tg1.

No, quella seconda volta l’avevo cercata. E preparata. Dieci anni fa, Papa Bergoglio aveva pubblicato a maggio l’Enciclica Laudato si’ sulla cura della Casa comune, la Terra malridotta che ci ospita. Stavo lavorando a un documentario per Speciale Tg1 da mettere in onda a fine novembre 2015 in occasione della Conferenza di Parigi sulla crisi climatica. E l’Enciclica firmata da Papa Francesco cinque mesi prima me l’ero letta tutta da cima a fondo, la prima volta per un testo in qualche modo “sacro” dopo tanti e tanti anni. Puntare ad un incontro con Francesco era fuori portata, non foss’altro che per “liturgie professionali e decisionali” che regolavano in Rai proposte di lavoro considerate “fuori dal seminato”, e fuori dai ranghi in base ai ruoli preassegnati. Puntai, con l’aiuto di colleghi “introdotti”, più in basso. Nemmeno poi tanto, pensando bene all’argomento che volevo approfondire. L’appuntamento mi fu dato con Marcelo Sánchez Sorondo, Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze.

Galileo di fronte al Sant’Uffizio, dipinto di Joseph-Nicolas Robert-Fleury

Monsignor Sánchez Sorondo è filosofo e teologo, argentino come Papa Bergoglio, domenicano però e non gesuita come il Pontefice che aveva messo nelle sue mani l’elaborazione della struttura teologica e scientifica dell’Enciclica sulla Casa comune che brucia. Uno studioso che quando si occupa di ambiente, di scioglimento dei ghiacciai o di polveri sottili disperse nell’aria, a Radio Vaticana usa apertis verbis parole così: «parlando di inquinamento si parla di asma, di problemi che la gente vive ogni giorno». Uno scandalo per i cattolici conservatori come il mio occasionale interlocutore viterbese. Sul rapporto della Chiesa con la scienza, alla mia domanda sulla condanna di Galilei per eresia, quel giorno in Vaticano la risposta di Sánchez Sorondo fu non meno diretta ed esplicita: «Aveva ragione Galilei e torto la Chiesa». Già Giovanni Paolo II, per la verità, aveva ammesso a mezza bocca qualche anno prima l’ingiusto processo patito da Galileo Galilei, ma non era andato dritto al punto come Sánchez Sorondo davanti alle nostre telecamere.

Ecco il punto. Nel suo cammino pastorale e nei dodici anni del suo magistero pontificio, Bergoglio ha saputo aprire porte e finestre ai dubbi del mondo e alle certezze (pur provvisorie) della Scienza. Ha prestato ascolto alla voce degli ultimi e all’impegno dei tanti — credenti o atei, agnostici (come chi scrive) o laici (di ogni ordine e grado) — che non volgono altrove lo sguardo, di fronte a ingiustizie e violenze. L’opposto di quel che un protocollo ingrato gli ha imposto, come ultimo incontro pubblico, di ricevere il messaggero al curaro di Donald Trump. E non saranno di certo gli ovetti pasquali di James D. Vance, neo-convertito al cattolicesimo americano, a riempire le chiese vuote: al massimo lo Studio Ovale zeppo di fanatici con frasi estrapolate a casaccio dai Vangeli o della Bibbia. Ma — ha scritto ieri pomeriggio Paolo Rumiz — a quel punto, con Vance davanti, «Francesco nello sguardo aveva una luce che faceva capire di essere oltre, la valigia pronta. Già in contatto con l’Altissimo».

Se un qualche valore la conversazione estemporanea di ieri mattina “nella città dei Papi” l’ha avuta, ora mi sento di dirlo con più convinzione: se n’è andato un Papa che mancherà decisamente di più a mangiapreti col cuore e la mente aperta che a paurosi baciapile, nostalgici di sedie gestatorie e scarpe rosse. E si può anche aggiungere: missione quasi compiuta… Quasi. Se, anziché la misericordia, non ci fosse al comando del mondo — andato ora via Francesco — un gruppo di delinquenti sempre più fuori di testa. Liberi, da oggi, anche dalle parole con cui Jorge Mario Bergoglio ha attraversato, per dodici anni, confini degli Stati e delle Religioni. Persino delle Religioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Direttore - Da inviato speciale della Rai, ha lavorato per la redazione Speciali del Tg1 (Tv7 e Speciale Tg1) dal 2014 al 2020, per la trasmissione “Ambiente Italia” e il telegiornale scientifico "Leonardo" dal 1993 al 2016. Ha realizzato più di mille inchieste e reportage per tutte le testate giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo, e ha firmato nove documentari trasmessi su Rai 1, l'ultimo "La spirale del clima" sulla crisi climatica e la pandemia.

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